giovedì 9 agosto 2018

Gli scrittori religiosi, o sulla virtù dell'arroganza

In generale, mi piacciono molto gli scrittori religiosi. Testori, Bernanos, O'Connor,  Manzoni, Dostoevskij, Doninelli, Zaccuri, Tolstoj, Parazzoli, Paolin, e sono solo i primi nomi che mi vengono in mente, quasi a caso. 
Per un ironico paradosso, la ragione del mio apprezzamento sta però in quello che viene unanimemente considerato un difetto, e cioè una sorta di implicita supponenza, arriverei quasi a dire arroganza che si avverte già dall’incipit, e va crescendo nella lettura. Io sono lo Scrittore, è come se ti sussurrasse una vocina che emerge dal frusciare delle pagine, io sono lo Scrittore e gli scrittori fanno una cosa elevata ma anche profonda, comunque decisiva per chi legge. E se non mi stai leggendo peggio per te! questo il sotto testo a negazione della dichiarata umiltà dell'acquasantiera in cui viene immersa la penna, o così siamo abituati a sentirci raccontare.
Eppure, se ci pensiamo bene, è il gesto stesso di prendere la parola pubblicamente che contiene un’ineliminabile misura di supponenza, che negli scrittori religiosi viene considerata in tutte le numerose implicazioni. Perché dovrei ascoltarti, cos’hai di tanto importante da dirmi? Queste le domande che dovremmo sempre farci quando iniziamo a leggere un libro.
Ecco, negli scrittori religiosi è allora forse proprio l’importanza del fare narrativo, che nasce dall’impotenza di corrispondere con parole a fatti, e viceversa (la letteratura è sempre in nome di un altrove prefigurato e mai vissuto, come la profezia) ad essere messo a tema con puntiglio, in questo sforzo tutto umano di sillabare l'indicibile; Beckett non era religioso, ma nel finale de L'innominabile arrivò a una conclusione molto simile: "You must go on. I can't go on. I'll go on".
Letteratura come scacco dell’azione salvifica, dunque, come sua eterna dilazione, in una specificità letteraria che non è solo primonovecentesca, ma direi ontologicamente connaturata al gesto stesso dello scrivere. Si scrive perché non si vive, insomma, ma è una diversa forma di vita anche quella inaugurata dalla parola scritta, che dischiude il possibile letterario come l'aratro di Caino. Siamo così portati a concludere che gli scrittori religiosi fanno sempre metaletteratura. Spesso anche ottima.


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