lunedì 10 ottobre 2011

Latte e miele e burro e pane e marmellata, o sulla gnosi alimentare dell'Occidente

Primi giorni di scuola della prima elementare. Dalle pagine iniziali del libro di lettura, la maestra commenta una sequenza disegnata. Il protagonista è un bambino come noi - mettiamo si chiamasse Pierino - che si alza pigramente dal letto al suono di una grossa sveglia tonda.

Drin drin, e tutti quanti avvertiamo il trillo nelle orecchie.

Pierino raggiunge quindi il bagno, si lava la faccia nel lavello - il fresco dell'acqua fin dentro alle narici, anche quello sentiamo con un fremito nella schiena - e raggiunge la tavola apparecchiata dalla mamma. Sopra una tovaglia a scacchi bianca e rossa è pronta la sua colazione.

Latte e miele e burro e pane e marmellata.

E noi sentiamo il latte, il gusto morbido e tondo del latte che invade il palato, tiepido e avvolgente. Ma subito è trafitto da una dolce stilettata di miele, lenita nel burro, medicata col pane, glorificata dalla marmellata. Sentiamo tutto, noi.

E lo sentiamo anche adesso e lo risentiremo all'infinito.

Marcel Proust ha reso celebre una madeleine per averne puntigliosamente narrato la sensazione fisica del gusto, che ha il potere di riaccordarsi con una medesima sensazione del passato, creando un cortocircuito cronologico. Ma Proust, questa è la cosa che io trovo più interessante, non stava scrivendo del suo effettivo passato, ma di quello del personaggio letterario che agisce nel romanzo come suo probabile alter ego.

E così nemmeno io, a distanza di quasi quarant'anni, ricordo il gusto di una mia remota colazione, ma di quella di Pierino a base di latte e miele e burro e pane e marmellata.

Ora si parla tanto di religioni orientali, di Buddismo in particolare, in quella sua evoluzione cino-nipponica chiamata Zen. Ma di che cosa esattamente parla lo Zen, o meglio cosa insegna tacendo?

Detta sommariamente, cioè semplificando forse più del lecito, lo Zen allena ad essere vigili e a concentrare l'attenzione nel presente vissuto, da cui ricavare un'esperienza che tenda per paradosso alla totalità. Ma anche l'Occidente ha saputo concepire una via spirituale totalizzante, a ben pensarci.

Questa via spirituale si chiama letteratura.

La letteratura è infatti un artificio mnemonico potentissimo per "ricordarsi" della propria vita. Tale reminiscenza avviene però attraverso esperienze che non facciamo realmente, e in cui solo ci identifichiamo. Io sono quel che sono - e dunque è di me che sto ricordando - anche grazie a Pierino, e alla descrizione della sua colazione fatta dal mio libro di lettura. Che, ancora, morbida, dolcissima e struggente, dilegua nella mia bocca come fosse qui.

E sì che io non ho mai addentato quella colazione. Così come non ho mail navigato i mari caraibici insieme al Corsaro Nero, spartito il tesoro con i briganti, le banane con Cita e Tarzan, o sfregato la lampada magica di Aladino, che pure ha continuato ad eruttare i suoi fantasmi. Allo stesso modo, più tardi e per altre mediazioni visive, non ho cavalcato sulla groppa di Furia cavallo del West, non mi sono aggrappato all'ombrello di Mary Poppins, carezzato il pelo ispido di Rin Tin Tin o quello lungo e morbido di Lassie.

Eppure io sono tutto questo. Eppure l'Occidente è tutto questo: un enorme accumulo di esperienze non vissute, di esperienze in conto terzi.

Al punto che, da una prospettiva teologica magari un poco eccentrica, questo carattere di irrealtà esperita che ha nella tarda modernità il suo trionfo, a me ricorda il compimento mistico prefigurato da quella corrente spirituale antica chiamata gnosticismo. Anche gli gnostici, infatti, guardavano al mondo reale con diffidenza e sospetto. Confidando nel puro spirito che si oppone e infine emancipa dalla materia, di cui però conserva una vaga reminiscenza al gusto di latte e miele e burro e pane e marmellata.

giovedì 6 ottobre 2011

Gli zoccoli della Konarmija, una cavalcata nella steppa del presente


Quando, durante una conferenza, oppure a teatro, a un concerto di musica classica e comunque in genere in un momento di particolare rarefazione emotiva, quando, ecco, un bambino piccolo piccolo inizia a piangere o a fare strani versetti con la sua vocina, poi si distacca dall'abbraccio tiepido della madre - è una giovane e bella donna con i capelli ricci chiusi in un arruffato chignon, gli occhiali da vista dalla montatura spessa - e inizia a caracollare tra le file serrate di poltrone come un gattino tra le zampe dei cavalli dell'armata cosacca della Konarmija, mentre il pubblico seduto compostamente in sala finge unanimente di non sentire, e lo stesso il conferenziere, gli attori, i musicisti, nessuno sembra accorgersi di quella minuscola presenza che invece reclama una piena e totale flagranza, così quanto più quelli lo ignorano quanto più l'altro strilla, afferra un attempato commercialista per il lembo della giacca e lo strattona, ma lui niente, solo un commosso sorrisino all'indirizzo dei genitori - anche il padre porta occhiali da vista, ma leggeri e dalla lente fotocromatica, con il cordino che ondeggia sopra al coccodrillo dalla fauci spalancate della Lacoste - i quali genitori ricambiano compiaciuti e garbati, quasi che l'incursione fragorosa della propria creatura si appuntasse scintillante sul bavero del giubbino di jeans alla maniera di una medaglia al valor militare, meglio ancora un titolo onorifico per qualche gesto di estrema utilità sociale, del genere aiuta una vecchietta ad attraversare la strada, o infila la cacchina del cane dentro un sacchetto marrone per poi trasportala con il naso arricciato nell'apposito contenitore, cose così, che fanno sentire le persone un Popolo, un Paese civile fondato su valori quali la tolleranza, l'amore e il rispetto per i cuccioli della propria specie, circonfusi da un alto e nobile sentimento democratico che c'è, o meglio c'era, fino a che non si sente un colpo di tosse da una posizione defilata e ombrosa della sala, poi una voce, per piacere, potete portare fuori quel bambino, qui c'è gente che vorrebbe continuare ad ascoltare, grazie, e allora è tutto un girarsi di spalle, una torsione del collo e un roteare vorticoso delle orbite, nella vana ricerca di individuare chi ha interrotto in un modo tanto brusco l'idillio, deve essere certamente una persona insensibile, un animo rozzo, peggio, un mostro, e sono le stesse volte in cui io mi trovo a ripensare agli zoccoli della Konarmija, a quando Semën Budënny mise assieme quattro disgraziati e i loro ronzini e lì chiamò "Cavalieri del Don", e il bello fu che loro ci credettero, al punto che in pochi mesi già stavano dando del filo da torcere niente di meno che all'Armata Bianca di Anton Denikin, fu poco prima dell'ingresso trionfale a Mosca con i Bolscevichi, la campagna ucraina contro i polacchi nel Venti, Kiev sbaragliata ma si trattava di un fuoco fatuo, che aprì la strada alla terribile sconfitta nella battaglia di Komarów e poi ancora la Siberia, l'Asia Centrale, Kraj di Altaj, la Mongolia, fino a che la leggendaria Prima armata di cavalleria russa terminò il suo viaggio in Manciuria e Kamčatka, con l'ultimo combattimento nel settembre del 1924, quando fu conquistata l'estrema Penisola di Chukchi... Cosa c'entra tutto questo, direte voi? Perché, davvero qualcuno pensava che mi importasse qualcosa di uno stronzetto di tre o quattro anni che, per giunta, rompe i maroni a due o tremila maschi adulti senza nemmeno uno con le palle di prendere per le orecchie i genitori e accompagnarli gentilmente all'uscita, come un fante con il suo cavallo sfinito dopo giorni e giorni di marcia nella steppa?

venerdì 23 settembre 2011

Omnia munda mundis, o sull’equivoco della purezza


Tutto è puri per i puri, scrive Paolo di Tarso nella lettera a Tito. Ma cos’è la purezza?

Probabilmente, già in epoca precristiana, con questo termine ci si riferiva all’assenza di filtri intellettuali, emotivi, insomma di una complessa grammatica interiore che faccia da discrimine, e quindi anche da scudo, tra il soggetto e ciò con cui entra in relazione. Il puro ha per così dire un’esperienza immediata delle cose, che al suo meglio produce empatia e dedizione, spirito di comunità. Ma è proprio in conseguenza di un’attitudine fiduciosa ed esposta al mondo che il puro è anche più facilmente influenzabile dall’esterno.

La purezza, da un punto di vista linguistico, corrisponde infatti a pulizia e a “nettezza” del carattere. Eppure è proprio in questo tratto appartenente all’orizzonte semantico dell’igiene che si scorge il potenziale limite del termine: solo chi è pulito può realmente e definitivamente sporcarsi, solo chi è netto può diventare lordo. Gli altri, tutt’al più, sono impolverati e grigi.

In un grigiore diffuso, un’esposizione prolungata al lerciume non ha così l'effetto di uno stigma battesimale, ma tutt'al più induce a lavarsi le mani molte volte, per poi sporcarsi fatalmente di nuovo. O almeno, questa è la reazione che provoca l'ambiente sui lambiccati ed i pensosi, i quali hanno sviluppato una confidenza critica con la sporcizia. Che essi sono però in grado di riconoscere ed eventualmente emendare, anche solo temporaneamente e parzialmente.

E’ dunque e principalmente un’anima pura, un cuore candido, ad essere contaminato e infettato da un ambiente sociale tendente alla lordura. Che il puro non è diversamente in grado di riconoscere e contrastare proprio perché affetto da purezza, da disposizione fiduciosa verso l'altro o, più spesso, verso una comunità di persone di cui si fida per abitudine o istinto, al punto da scavallare il perimetro sospettoso tracciato dalla ragione. E con tutta evidenza, questa è la condizione del tempo attuale.

Conviene allora diffidare delle persone pure, donne e uomini che si descrivono come solari e senza sovrastrutture di pensiero, in un diffuso disprezzo di chi si ostina in forme di anacronismo critico verso l’esistente, che loro chiamano senza distinzione intellettuali. Mentre i puri, con la loro programmatica rinuncia a un’autonomia emotiva, prima ancora che cognitiva, sono la manodopera ideale di ogni élite politica subdolamente totalitaria, che con una mano raccoglie una buccia di banana e con l’altra distribuisce scorie tossiche in lunga processione di container.

E poi come erano pure, empatiche, certe amorevoli missive dal fronte dei militari delle SS. Quando si preoccupavano della carie dentale dei figli – biondi e puri come lo erano loro –, prima di abbandonarsi a minuziose descrizioni delle torture inferte ai prigionieri.

Certo, in un tempo e in una società più decenti di questa, correndo incontro alla vita con fiducia i puri non si macchiavano, e al contrario risplendevano come fiaccole nella notte. Ma è proprio per tale disposizione indiscriminata ad accogliere la vita che, oggi, e per primi, i puri sono stati inghiottiti dalla stessa notte che vorrebbero illuminare. Si chiama legge dello specchio e ci mostra come il pelo del leopardo sappia adattarsi alla savana, e l’uomo ai peggiori orrori di natura.

Credo sia proprio questa l'intuizione più acuta dell'ultimo Pasolini, quando abiurò dalla Trilogia della vita. Ma il suo pensiero era già contenuto in nuce nel breve cortometraggio La sequenza del fiore di carta. In quelle immagini concentrate assistiamo a una spensierata passeggiata di Ninetto Davoli, il più puro tra i puri, per le vie di una indefinita città moderna, accompagnato da una colonna sonora costituita dalle drammatiche notizie radiofoniche del presente. Ma chi se importa, chi se frega di quei lutti e di qui conflitti, sembra dirci il volto sorridente e candido di Ninetto, che saltella con un enorme fiore di carta rosso stretto nel pugno. Lui non ha colpa, è vero. Lui è puro.

Ma ugualmente, si abbatte infine una saetta sulla sua testa riccioluta, scagliata da quel deus ex machina che è il regista. Il film si chiude con Ninetto riverso al suolo privo di vita, con la mano ora dischiusa accanto allo stelo del suo enorme fiore rosso, evidente metafora di purezza interiore. E ciò ad ammonirci che in un mondo violento e malato, siamo, seppure in forme e gradi differenti, tutti complici e responsabili. O meglio ancora, siamo “colpevoli” di quell’antica colpa teologica chiamata omissione.

Ma nonostante il film fosse ispirato a un enigmatico episodio dei Vangeli, forse è il caso di retrocedere ulteriormente nel reperire eventuali riferimenti religiosi nella pellicola. In cui Pasolini, dopo un’evidente sintonia estetico-morale proprio con il cristianesimo di eredità paolina, sembra qui riaccordarsi con la tradizione tragica. La colpa e il peccato di Ninetto non corrispondono infatti a un’intenzione a compiere il male, e da una punto di vista cattolico sarebbe dunque già assolto. Eppure, per Pasolini, questa in-coscienza e non-intenzionalità rappresentano un’aggravante.

La colpa è dunque quella pagana dei padri, che ricade osmoticamente sui figli. Ma soprattutto sono le colpe dei figli senza colpa, che in un’epoca in cui occorre fare invece barriera, assumersi responsabilità, contestualizzare e quindi resistere alle forme diffuse e dominanti di immondizia politica e culturale, si sono arresi al mondo per un eccesso di purezza, di candore. Ed è per questo che anche io, con Pasolini, affermo che i puri sono miei nemici. E che la complessità è un atteggiamento molto più conforme a questo mondo impuro.

mercoledì 14 settembre 2011

Asprealina, o sul perché la realtà è reale ma non necessariamente vera


Leggendo l'affettuoso e lambiccato tira e mola verbale tra Gianni Vattimo Maurizio Ferraris sullo statuto filosofico del reale – esiste la realtà oppure è tutto, come voleva Nietzsche, interpretazione? – mi è venuta in mente una cosa magari anche un po’ scema. L’Aspirina.

L’Aspirina, sì.

Uno l’acquista, apre la confezione, legge le indicazioni su quel foglietto che chissà perché chiamano bugiardino (io un’idea ce l’avrei, ma lasciamo andare…), dove viene spiegato che l’Aspirina serve ad alleviare i sintomi del raffreddore, oppure per i dolori muscolari, come antipiretico e insomma funziona un po’ per questo un po’ quello. Funziona.

Poi, però, il nostro acquirente legge ancora più avanti e spesso anche più in piccolo, e decide di lasciar perdere e bersi un bel bicchierone di latte caldo con il miele. Siamo infatti arrivati alle precauzioni.

Ma che cosa sono, concretamente, le precauzioni?

A ben vedere le precauzioni non si preoccupano realmente di te, ma del signor Bayer che primo a battezzato quel semplice e geniale intruglio a base di acido acetilsalicilico. E infatti il tempo verbale con cui vengono coniugate le precauzioni, o più comunemente dette avvertenze, è il condizionale, a suggerire che ciò che qui compare non va certo preso alla lettera.

Effetti indesiderati: secchezza delle fauci; cefalea; disturbi dell'accomodazione: tachicardia; ulcera gastrica; narcolessia; emipistosi; trombolemmia; sfiatofonia... E potremmo continuare all'infinito, o almeno fino a supercapsula prematurata con scappellamento a destra come se fosse antani.

Chiamiamolo allora e semplicemente "il coccolone", come facevano i nostri nonni.

Già che lo sapevano anche i nostri nonni che non è vero – ma, attenzione, non è nemmeno falso – che se dopo un paio di starnuti prendi un'Aspirina poi ti viene il coccolone. Anzi, normalmente è vero il contrario. E cioè che l’Aspirina allevia i sintomi del raffreddore, i dolori muscolari e tutte quelle cose che ci stavano scritte prima, quando i caratteri erano più grandi, impavidi e sentenziosi.

La "verità" di un farmaco (il suo quid ontologico, direbbe un filosofo) sta dunque tutto in quella parolina: normalmente. Normalmente l’Aspirina ti fa bene, ma, insomma, vedi un po' tu: noi ti diciamo pure che eccezionalmente può farti male, e così ci pariamo il culo.

O detta altrimenti, l'effetto di una sostanza chimica sulla varietà biologica umana, non ha né può avere una fondazione stabile ed incontrovertibile, come ad esempio può assicurare un esperimento di meccanica replicabile nel tempo, nella diversità dei luoghi ma alle medesime condizioni. Per quanto venga chiamata scientifica, quella farmacologica non è quindi una verità certa, assicurata dall'esperienza o dal suo riflesso nella teoria.

Eppure, la maggior parte di noi sembra non farsi troppi problemi epistemologici, e ai primi sintomi di raffreddore discioglie in un bicchier d'acqua una pastiglia sfrigolante d'Aspirina. E ciò non perché l'umanità sia regredita allo stadio del pensiero magico, ma perché è ragionevolmente prevedibile che i propri sintomi ne abbiano sollievo, e che non ti venga il coccolone.

Per la chimica farmacologica la verità nasce dunque dal confronto tra un numero significativo di eventi casuali, che tendono a riproporsi seguendo un certo schema di probabilità, sul quale poi la statistica stabilisce dove mettere l’asticella: oltre una certa misura un effetto può essere ritenuto vero, sotto quella soglia invece possiamo tranquillamente valutarlo come falso, o tutt’al più come gentile elargizione di quell’altro e misterioso laboratorio chimico chiamato effetto Placebo.

Bene, a me non sembra tanto complicato. L’Aspirina in fondo funziona, da un punto di vista probabilistico è da ritenersi senza dubbio "vera", anche se io preferisco il termine reale. La realtà cade infatti sotto il dominio semantico dell'esperienza, mediata e compromessa a partire dei suoi presupposti fisico-quantistici, da quasi un secolo formalizzati nel principio di indeterminazione di Heisenberg, con il proprio osservatore. Ma già Kant e la tradizione filosofica continentale avevano intuito qualcosa di "costruito", o meglio ancora di umanamente partecipato, nella forma assunta dalla realtà attraverso i sensi che l'esperiscono.

Mentre la Verità, anche quando risistemata con l'abito arlecchinesco della statistica o della nuova fisica relazionale, risente ancora dell'imprimatur logico della certezza sillogistica e dell'eredità dello scetticismo filosofico, che come abbiamo visto sfuggono a quella roulette truccata costituita da ogni singolo e concreto evento. Ma in fondo è come ribadire, platonicamente, che quelle che scorgiamo nella caverna non sono le Idee, piuttosto la loro ombra impigliata in infinite e umane influenze.

Quindi, filosoficamente, ma anche nell'incognita variabilità dei casi: o la va o la spacca... E' sempre così, prima di ingollare un farmaco. Non c'è niente di vero.

Non è vero che un farmaco ti fa guarire, ma non è vero neppure che ti fa venire il coccolone. Si tratta sempre e solo di verosimiglianze. Ma è grazie anche alla verosimiglianza dell'Aspirina se la vita media è aumentata un po’ da tutte le parti, o almeno dove viene usata al posto dello sterco d’asina mescolato alle code di lucertola. Poi, però, ogni tanto, qualcuno si prende un'Aspirina così come un bambino prende distrattamente una lucertola per la coda, e insieme all’Aspirina gli viene il coccolone.

La chiamano sfiga, ma in effetti è l’altra faccia, o meglio l’ultima, quella piccina, di quel diadema unico ma infinitamente sfaccettato che è la Verità, e che ogni tanto riesce a scavarsi un varco e a raggiungere le sue più numerose consorelle, che hanno libero corso dentro la polimorfica e frantumata realtà della caverna. E ciò forse proprio perché c'è qualcosa come un accordo sul valore da assegnare a ogni singola ombra, cioè ancora sulla verità, questa volta però scritta con l'iniziale minuscola. Che è per l'appunto l'opzione filosofica postmoderna, qui sostenuta da Gianni Vattimo:

La verità umana è una interpretazione tra la tante, ma diversamente dalle altre è funzionale alla stabilizzazione delle strutture (simboliche, giuridiche, religiose ed economiche) del Potere.

L'interpretazione postmoderna però trascura, a mio giudizio, il fatto che per quanto non ci siano verità più vere di altre - dunque nemmeno la postmoderna -, esistono quelle verità verosimili a cui già abbiamo accennato, e cioè più frequenti o dove l'accordo umano è maggiormente solido e tenace. E questo non necessariamente per motivazioni connesse al dominio e alla volontà di potenza, ma per qualche "callosità" nell'oscillazione ideale dell'ombra, chiamiamola così, in quei punti più resistente agli assalti di una psiche onirica e desiderante.

Ed è allora proprio su quei punti di resistenza che guadagna spazio la ragione. La quale, sulla scorta di un minimo appiglio di realtà, può divenire concertante, ossia realmente e compiutamente democratica.

Del funzionamento dell'Aspirina bisogna infatti prenderne semplicemente atto, non c'è nulla da concertare. Ma il suo modello probabilistico - Ferraris lo chiama "realismo modesto", che è un po' come la sorpresa nell'uovo di Pasqua: qualcosa c'è, ma non sai esattamente cosa... - il suo modello può fornire la base proprio alla concertazione politica, prima ancora che filosofica, non so se mi spiego.

Ad esempio uno si alza una mattina e afferma: "Vi offro un milione di posti di lavoro". Così che gli altri, dopo essersi presi un'Aspirina per alleviare i sintomi delle risate, sono nelle condizioni di rispondergli: " Ok, spiegami quante probabilità hai di farlo, e in che modo e al prezzo di quanti coccoloni." Ma soprattutto, dopo aver rotto l'uovo la mattina di Pasqua, sono in grado di intimargli: "Questa non è la sorpresa che ci avevi promesso, dove è il milione di posti di lavoro che doveva starci dentro? Adesso o ci cambi l'uovo o te ne vai!"

Come si può vedere, non sempre il realismo (specie quello modesto) è funzionale alle logiche conservative del Potere.

Ricapitolando. Per il signor Bayer e per i suoi fortunati eredi, la loro candida e miracolosa pasticchetta non è concettualmente superiore allo sterco d'asina mescolato con code di lucertola. Ma funziona. E' il principio della techné, spesso aborrito proprio da certa filosofia novecentesca, che però avrebbe qui occasione per riappropriarsene in un senso democratico e costruttivo. Infatti, se è più probabile che prendendo l'Aspirina ti passi il raffreddore, sarà allora anche più probabile che una proposta politica argomentata con gli stessi criteri di persuasività pragmatica, abbia successo sull'ingannevole millanteria.

La concertazione democratica nasce infatti da un confronto tra interpretazioni alternative, spesso è una danza di ombre, questo è risaputo. Ma ciò che distingue il confronto dallo scontro è proprio quell'elemento discriminate che sta alla base del giudizio, e che leva all'ombra non la sua natura fantasmatica - desiderio e paura, in sintesi - ma di impermeabilità paradossale. Fissandola quindi a una sorta di coerenza formale: queste sono la tua forma e le tue parole, e adesso ne verifichiamo le corrispondenze, gli effetti, se non assoluti almeno più comuni. E dunque, superando qualche imbarazzo filologico, possiamo senz'altro e perfino con orgoglio chiamare tale fissazione realtà.

Sì, un po' più di realtà sarebbe forse l'unico antidoto a questo diffuso reificarsi dei sogni, degli altri, in incubi nostri.

Ammesso che ci si ricordi che un'ombra resta un'ombra, e che una cosa reale non è perciò stesso vera, né tanto meno "più vera" di una così improbabile da non essersi ancora verificata. E allora, se proprio Gianni Vattimo e Maurizio Ferraris hanno deciso di dare un nome filosofico a questa cosa qui, io gli propongo di chiamarla ontologia farmacologica. O più semplicemente e comunemente: Asprealina.

martedì 13 settembre 2011

"Vertigine pop", o sul disprezzo cinefilo


"Vertigine pop: Tsui Hark gira un wuxia storico con derive fantasy, che si sviluppa secondo una detection classica, da whodunit dei tempi che furono, percorso da dialoghi screwball, venato di melò, infarcito, sino alla nausea, di CGI..."

Queste sono le prime tre righe di una recensione al film Detective Dee e il mistero della fiamma fantasma, scritte da Giulio Sangiorgio per gli Spietati. Sia Sangiorgio sia gli Spietati, un ottimo sito web di approfondimento cinematografico, va tutta la mia stima. Eppure, per quanto io possa presupporre un'intenzionalità mimetica della recensione con il suo oggetto, alla quarta riga ho interrotto la lettura, e mi sono fatto una semplice domanda: perché le persone che scrivono di cinema, anche quelle brave, intelligenti, perché devono farlo con un esoterico linguaggio da casta sapienziale, o da supponenti medici della mutua – wuxia; fantasy; detection; whodunit; melò, screwball; CGI... –, come chi cammini per strada con un termometro ficcato nel buco del culo?

giovedì 8 settembre 2011

Diventa bella!, o sul disprezzo estetico verso le mie coetanee


Il problema delle donne è che, fino a trent’anni, to’ fai anche trentacinque, trentasette, fino a quell’età non lo sai ancora se sono belle oppure fighe. Quando sono brutte lo vedi subito che son brutte, ma l’urgenza vitale ed erotica della gioventù chiamiamola “fighezza”, dai, non facciamo gli schizzinosi ha questa naturale attitudine a travestirsi da bellezza.

E così, oggi, apro il sito on-line di Repubblica, e ci trovo un videoclip di un gruppo musicale dal nome che è tutto un programma - The Vaccines, giuro, si chiamano proprio così! Tra loro anche la modella e stilista britannica Kate Moss, che conclude il filmato con l’accenno di un breve strip.

La ricordiamo tutti, vero, Kate Moss?

Secondo alcuni era l’aspirapolvere più bello del mondo. Ad esempio quando, insieme al fidanzato Pete Doherty, riusciva ogni volta a farsi beccare dai Paparazzi: sembravano bambini chinati a giocare sulla spiaggia, a dar forma alla pista in cui far correre le biglie con il volto stampato dei ciclisti. Solo che le piste, al posto che di sabbia, erano lunghe e candide di cocaina, e dei ciclisti era rimasta ormai solo l'orma metallica delle cyclette, su cui le donne di mezza età sgambettano e sudano per rassodare il culo. Inserisco il suo nome su Wikipedia, e scopro che Kate Moss è nata il 16 gennaio 1974. Tra quattro mesi compirà trentotto anni.

L’età è dunque quella, il tempo in cui si scopre se sei bella o eri semplicemente figa, indipendentemente da quanta cyclette tu possa fare. Ma nel suo caso, la totale assenza di bellezza è addirittura lampante: una racchia, un cesso, si è trasformata in una streghetta tutte moine e ancheggiamenti, che sembra essere appena stata sputata fuori dal tostapane della storia. E non ha ancora compiuto trentotto anni, dico, trentotto…

Come è spietata la natura, davvero. E come sono tristi certe donne, troppe donne, le quali non hanno ancora inteso la differenza tra essere belle ed avere una fica. Brigitte Bardot, mettiamo. A vent’anni Brigitte Bardot era totalmente e definitivamente e irrimediabilmente figa. Era cioè tutta compresa in ciò che il privilegio del caso le aveva offerto: un corpo acerbo e perfetto, all'origine dei capricci che quello stesso corpo le concedeva in abbondanza, come un animaletto viziato. Era insomma il riflesso del suo possesso.

Poi, a quaranta e cinquant’anni, Brigitte Bardot ha saputo inventarsi una bellezza che prima non possedeva, trascendendo l'identificazione con il puro dato biologico. Invece di continuare a fare la figa a Saint-Tropez , scavallato quel discrimine temporale ha cominciato ad imboccare i cagnolini abbandonati, o a far casino contro l’orrenda macelleria delle foche da pelliccia. Tutto ciò nel più completo disinteresse alle rughe che fiorivano di giorno in giorno sul suo viso, e per le subentrate imperfezioni di quel corpo che tanto bene l’aveva servita in gioventù.

Certo, ora possiamo anche farci dell’ironia, ridere di queste sue agnizioni tardive e vagamente naif. Ma la consapevolezza animalista rimane uno dei traguardi più alti dello spirito umano, in cui si mostra la facoltà che davvero potrebbe qualificarci: un’empatia che travalica non solo gli angusti confini del nostro corpo, ma della specie intera, quel rissoso macro clan che è l’Homo sapiens sapiens. E che per definizione se ne fotte di tutti gli altri animali, i quali come lui vivono, respirano e sbranano su questa terra. Ma anche soffrono.

Purtroppo io ritrovo invece un sacco di donne che, a quaranta o cinquant’anni suonati, si comportano come Brigitte Bardot quando ne aveva venti, e se ne stava con le chiappe al sole ad aspettare che Gigi Rizzi tornasse dallo sci d'acqua. Donne che pensano che a quell'età si possa ancora essere fighe, o meglio avere nel proprio sfiorito e minuscolo possedimento la sineddoche di tutto quel che non sono, così perdendo ogni possibile residuo di bellezza. Il triste spogliarello di Kate Moss con i Vaccines diventa allora l’emblema di questo nuovo e nutrito comparto umano: fiche disseccate, possiamo chiamarle così.

Forse un tempo siete state anche fighe, d’accordo, la fica vi germogliava nel vento e nel sole e negli spruzzi di un motoscafo, ma adesso avete mancato l’unica vera e fondamentale occasione che la vita ci offre: diventare belli, diventare qualcosa d'altro e più complesso di un effimero frutto di natura, perciò tendente a marcire in una breve stagione. Perché la bellezza, come l’identità, non è uno stato, una condizione esteriore affrancata dai gesti e dai pensieri, ma qualcosa che va guadagnata con sforzo e intenzione. Scriveva Friedrich Wilhelm Nietzsche: “Diventa ciò che sei!”

Ma diventa anche bella, aggiungiamo noi. Purtroppo, per farlo, per diventare la bellezza che ancora non si “è”, non è sufficiente trascorrere le giornate in palestra o dall’estetista, per avere nuovamente indietro ciò che si ha perduto. Piuttosto si deve schiudere qualcosa che non sono i bottoni di una camicetta by Kate Moss design, ma molto più sotto. E senza quella cosa lì, senza quel bottoncino interno e misterioso, su cui tocca lavorare con l’impavida sfacciataggine di Brigitte Bardot da vecchia, Brigitte Bardot da bella, siete solo delle povere e avvizzite carampane sulla cyclette.

mercoledì 7 settembre 2011

Il disprezzo, o sulla sopravvivenza in tempi oltraggiosi


Nei giorni scorsi, in questo spazio, ho pubblicato un post ulceroso e idiosincratico, nel quale terminavo rilanciando una delle figure più umanimamente biasimate: il disprezzo. Il discorso, volutamente, si limitava a un impeto emotivo confezionato nella trama di una esplicazione allusiva, che sarà certamente risultata indigesta a qualcuno. Un discorso "anti-patico", per così dire, e cioè tutto sbilanciato sul versante del patos, a danno della ragione. Provo dunque a precisare un poco meglio la mia idea.

Con disprezzo io intendo esprimere un atteggiamento di totale e definitiva contrapposizione (anti, appunto), che non culmina però in un congedo umano e sociale, proprio ad esempio dell’indifferenza. Attraverso il disprezzo c'è insomma ancora un certo margine di relazione, anche se non nella forma della dialettica sintetica ma della disputa frontale. E se ciò che si fronteggia sono ancora concetti ed idee (sul mondo, sulla vita), il terreno del conflitto si sposta da una razionalità dispiegata e puntuale dove abbiamo già fatto le nostre scelte a una emotività terrosa, un baricentro viscerale e reattivamente ferino.

Si usa dire che le cose vanno capite, prima che possano essere giudicate e infine condannate. Niente di più falso. Io sostengo infatti che il nostro tempo sconta un eccesso di comprensione intellettuale. Ma, a differenza di Marx, non penso che dopo essere stato compreso il mondo ora debba essere cambiato. Credo al contrario nei grandi cicli cosmici, e questo è con tutta evidenza un ciclo in cui l'onda deve ancora compiere la sua risacca. L'unica uscita è dunque quella laterale, sorta di 'arrocco scacchistico che ci porta alla rivalutazione anarchica della condanna dura e pura, senza speranza di emendare il guasto. Nel caso del tribunale psichico, ciò coincide quindi con la massima sanzione del disprezzo.

Sospetto dunque che sia proprio l'indifferenza, unita a una fredda comprensione razionale l'atteggiamento di chi si disponga a capire senza coinvolgimento emozionale, e ad assolvere nel nome della relatività delle opinioni e delle circostanze , quel che sta avviando il nostro Paese a una deriva tribale. Ma probabilmente l'analisi potrebbe essere estesa all'intera tarda modernità, che non ci vede ancora coinvolti in una guerra a tutto campo tra clan rivali (basta aspettare...), e assistiamo piuttosto un’esplosione centrifuga di schegge senza più alcun incastro. Il presente è questo puzzle di cui esistono solo i frammenti e la cornice, ma al netto del soggetto.

In quel passato prossimo che sono gli anni cinquanta, gli italiani, parlo ancora della Nazione che più conosco e massimamente patisco, sapevano invece ancora "disprezzarsi" l'uno con l'altro. Erano un paese reduce da una vera e sanguinosa guerra civile, dove si tirava da una parte o dall'altra la coperta troppo corta delle istituzioni, e di una visione generale e politica delle cose. Ma era forse proprio questa intima anti-patia civile, a renderlo il Paese vivo e forte che i nostri genitori hanno conosciuto.

Adesso, al contrario, in questo brodino conciliante ed ecumenico, è sempre più difficile recuperare qualcosa come un sentimento di comunità, non dico di identità ma perlomeno di relazione. Una relazione che, appunto, come anticipato, si dà ormai solo nella figura del disprezzo. Oltre che nella compassione umana fuori da ogni concetto e ideologia, come i contadini ucraini quando ci buttavano un cavolo o una patata lessa, prezioso tesoro per agli alpini italiani in scomposta ritirata.

Compassione e disprezzo, davvero non riesco più a vedere altro. Spazi per una complessa mediazione intellettuale non ce ne stanno più.
E allora o gli italiani recuperano il concetto alto e nobile di Nemico concetto che attiene alla dimensione spirituale pagana –, oppure riescono a rintracciare le proprie famigerate radici cristiane, che portano a realizzare nell'altro quel capolavoro di astrattezza antinaturale che è l'Altro evangelicamente inteso, umanandosi non più nel particolare ma nell'universalità di un'idea interamente esperita, più che concepita dall'intelletto. Atteggiamento che allontana però irrimediabilmente dalla cautela illuminista e laica. E ciò perché la temperatura della ragione è troppo tiepida e discriminatoria, e qui c'è bisogno di forti temperature per realizzare nuovamente la fusione.

Ma se il nostro è un Paese dove, più che in altri, ha saputo attecchire nel passato una certa disposizione compassionevole, se non proprio samaritana, siamo maldestri quando cerchiamo di crearci l'immagine fantasmatica di un nemico esterno. E questa è davvero la nostra più grande virtù. Per ravvivare l'energia polemica che rinsalda il senso di comunità (tutto viene da Polemos, sentenziava Eraclito), abbiamo dunque bisogno di recuperare la contesa locale tra i campanili, modernamente applicata alle nuove antropologie urbane.

Per questo io ho deciso che i miei nemici, che disprezzo con tutto il cuore, sono ad esempio i possessori di piccole idee, dei piccoli libri di Melissa Hill, e di piccole parole con contrappuntare vite piccine piccine ma non umili, come i pubblicitari che votano in massa il Pd. Ed è dunque anche contro i pubblicitari che io reclamo la smisuratezza, rivoglio la fantasia, quella vera, non la creatività.

In questo disprezzo e in questo livore io mi riscopro quindi e finalmente italiano, come nella compassione che è però una virtù troppo intima, troppo privata perché io riesca a scriverne mescolandola al becchime del web. E poi, comunque, la compassione è un sentimento tra uomo e uomo, mentre la grandezza e la forza del disprezzo stanno proprio nella sua urgenza categoriale: disprezzare tutti quelli con la Fred Perry con il colletto alzato, ad esempio, o tutti gli psicologi e per non dire le psicologhe, che vi assicuro sono ancora peggio. E ciò sapendo che l'andare a spanne è certamente rozzo e impreciso, quando la realtà sociale e civile è proprio questa rozza imprecisione: un fucile che spara a pallini e che produce una raggiera di significati, anche se spesso in provvisoria e vitale contraddizione.

Perciò, scrivevo, il disprezzo è la vera disposizione civile all'altezza del nostro tempo. Perché è democratico, orizzontale e sottilmente paradossale, come un film di Quentin Tarantino. Un sentimento davvero alla portata di tutti. Oltre che l'ultima chance per sentirci parte di qualcosa, ma soprattutto di qualcuno.

martedì 6 settembre 2011

Melissa Hill, o sul perché non mi rispecchio nei miei simili (anzi, nelle mie "similesse")


Eppure continuano a esserci persone che, potendo, è permesso, è lecito ed è perfino incoraggiato, potendo entrare in una libreria e chiedere l'ultimo libro che so di William Vollmann, o di Gianni Celati o di Patrick Modiano o di Vargas Llosa, ci sono delle persone, le ho viste io, che invece entrano in una libreria e chiedono l'ultimo libro che so di quello là con un drago in copertina, o di quell'altro, lo chiamano "il nuovo clamoroso caso editoriale dalla Svezia", o infine, per non sbagliare, facciamo il solito Camilleri, facciamo Umberto Eco o facciamo una certa Melissa Hill, che scopro adesso c'è questa Melissa Hill e scrive dei libri, pare li venda pure.

E così anche se non entri in libreria e dici buon giorno vorrei Melissa Hill, è il libraio stesso – buon giorno a lei – che ti accoglie prego, venga, non sa cosa leggere: le consiglio l'ultimo Camilleri (grande scrittore, per carità: ma dove è la curiosità, la fantasia?) o guardi qui appena sfornato un Umberto Eco croccante di giornata. Già letto, non c'è problema: che ne dice di un bel drago direttamente per lei dalla Svezia, o non mi dica che non conosce Melissa Hill? E non è vero che si deve diffidare delle persone che non leggono, perché le persone che non leggono, il più delle volte, è semplicemente che hanno altro da fare o da pensare, mica si svegliano alla mattina e dicono oggi NON leggo Le affinità elettive di Goethe, oppure NON leggo il Don Chisciotte di Cervantes, tiè, beccati questa.

Hanno i cazzi loro, intendo, e le mani occupate nelle faccende di tutti i giorni: vuoi dargli torto? Ma se hai il tempo e la voglia di leggere, dico, e poi ti rimpinzi di Melissa Hill... secondo me c'è da farsi delle domande: non su Melissa Hill, ma su uno che legge Melissa Hill invece di Richard Powers, di Milan Kundera, di Alice Munro o ancora meglio di farsi i sacrosanti cazzi propri, impastare le mani dentro alle faccende di tutti i giorni.

Che poi, in genere, non si tratta di uno, ma di una. Sono infatti le donne a leggere di preferenza i libri di Melissa Hill, anzi leggono in generale. Per questo, quando sento quei discorsi sulle donne che sarebbero superiori perché le donne leggono e gli uomini no, a me viene da pensare che le donne – un mucchio di donne almeno, le ho viste sempre io – le donne a furia di specchiarsi nelle parole di Melissa Hill, va a finire che le donne si convincono che quelle parole lì sono le loro, non quelle di Melissa Hilll; che ci sta pure il caso che scriva bene, non è questo il punto.

Il punto, infatti, è ancora lo specchio. E le parole. C'era un famoso psicanalista che, più o meno, semplifico, diceva che noi siamo il riflesso verbale del nostro mondo, e che quello specchio si chiama inconscio. Tanto che l'inconscio delle donne che leggono Melissa Hill, assume, piano piano, la sintassi e le cadenza della scrittura di Melissa Hill. Un po' come succede a Emma Bovary, che è la protagonista di un altro famoso romanzo, per quanto non l'ha scritto Melissa Hill e in copertina non ci sta alcun drago, manca il Killer seriale di bambini e arriva dalla Francia invece che dalla Svezia. Ah, è stato scritto nel 1856 da Gustave Flaubert.

C'è dunque questa Emma che legge dei libri, e poi si mette in testa che la sua vita è come quella dei libri che ha letto: vuole fare cose da libri, una vita da libri o meglio ancora è la sua anima, che poi è lo stesso dell'inconscio ma nell'Ottocento la chiamavano anima, tutto qui, si convince che la sua anima ha la faccia dei suoi libri. Solo che questo libro qui, e anche quelli che leggeva la moglie di Carlo Bovary, uno che invece non leggeva e infatti si limitava a farsi i cazzi propri e badare alle sue faccende, questo e gli altri sono libri scritti appunto in quell'epoca, e cioè un secolo dove fare una vita da libri voleva dire avere grandi ideali e passioni, portoni brumosi in cui appartarsi a fornicare.

Ma anche qui, fornicare, è un po' lo stesso di scopare, naturalmente. Solo che nell'Ottocento sembrava più elegante chiamarlo fornicare, gente che al posto delle felpe Adidas indossava il panciotto, e anche i pantaloni non si portavano con il cavallo basso e l'elastico del tanga che fa capolino nella piega del sedere, e come alternativa alle canne ci si stordiva con l'assenzio. Insomma, nella forma è cambiato tanto, nella sostanza pochino: libri e anima erano già la stessa cosa, ben prima che quel famoso psicanalista lo scrivesse dentro ad altri libri, che hanno contribuito a dare nuovo smalto alla nostra vecchia anima.

E se ancora tutto questo non bastava – non bastava alla tua anima –, se non era sufficiente leggere libri e poi comportarti alla stessa maniera dei personaggi, a quel tempo, per quanto in extremis, potevi sempre ritrovare qualcosa come un principio di realtà. Accorgendoti, ad esempio, di quanto fosse fasulla la tua vita, di quanto spettacolo ci fosse dentro, di quanto Altro e di quanto poco Tu. E alla fine non rimaneva allora che levarti dalla rappresentazione con un estremo gesto d'emulazione teatrale, scolandoti un'intera boccetta di veleno per i ratti.

Ma fare una vita da libri di Melissa Hill, io mi chiedo, che vita è una vita da Melissa Hill, e in che modo ci si può svegliare? E me lo chiedo "tecnicamente", non da sborone intellettuale. E cioè che anima viene fuori dalle pagine di Melissa Hill, che anima è quella che assume il corpo e l'espressione dalle donne che incrocio in libreria – sempre eleganti, cortesi, niente da dire –, che anima è l'anima che parcheggia una carrozzina all'ingresso e poi traguarda orgogliosa il suo contenuto soavemente addormentato? Ma sopratutto cosa me ne faccio, da cittadino italiano, di tutte queste anime in cui non mi riconosco, parlano la lingua di libri che sono letteralmente altri libri: un'anima divisa in due, in dieci, in mille idiomi incomunicanti, ecco cosa è diventato questo paese...

Un attimo dopo squilla il cellulare: è il marito: ciao amore: il marito che vuole sincerarsi che abbiano acquistato un paio d'etti di prosciutto cotto – che ti credevi, che era l'amante? Quello succedeva un secolo e mezzo fa, non la carrozzina ma la carrozza, i portoni brumosi in cui scopare, cioè, pardon, fornicare, scrutati solamente dal sottile taglio della luna, e dai ratti che hanno scampato il veleno per un soffio.

E così, poco più tardi, queste donne escono soddisfatte e sorridenti dalla libreria, con il prosciutto cotto in una mano e dentro l'altra l'ultimo successo di Melissa Hill. Si avviano quindi senza tanti cazzi per la testa, seguendo, sul marciapiede, tutte le virgole e i punti che Melissa ha disposto al posto giusto, al posto loro. E anche io me ne esco subito dopo, con infiniti dubbi di punteggiatura: abbandonare il sentimento del proprio Paese, mi dico, non significherà forse smarrire una visione narrativa d'insieme, essere incapaci di realizzarne l'idea in parole?

Ciò che rimane di un'esperienza civile che giudico ormai definitivamente fallita, ricapitolando, io lo ricavo dunque dalle manifestazioni linguistiche diffuse, che hanno nei libri e nello spettacolo i propri modelli di riferimento, minimi mattoni con cui si costruiscono piccole o grandi anime. Il fatto che non ci siano solo alcuni libri, come nei regimi totalitari, ma molti libri tra cui quelli di Melissa Hill, è naturalmente un vantaggio, intendiamoci: un segno certo di liberà. E anche gli spettacoli sono differenziati, specie dopo l'affermarsi di Internet. Ma questo"eccesso" di libertà narrativa mi sembra che abbia contribuito alla frammentazione del tessuto sociale, e cioè ancora del linguaggio con cui un Popolo si parla e riconosce, insomma la sua koiné, senza la quale un Paese non può più dirsi tale. Tanto che una libreria mi sembra allora la metafora più perfetta della morte civile che i più sensibili, o forse i più fragili di noi, sperimentano già da qualche anno.

Ma che cosa ci rimane, allora?

Rimane il disprezzo, per parte mia. Sì, io affermo – e lo scrivo pure – che disprezzare i propri simili (e LE proprie simili, soprattutto), sia l'unico sentimento civile adeguato a questo tempo, e cioè uno dei pochi atteggiamenti in cui ancora si dia il principio dolente di una relazione, prima del definitivo concedo in anomia distruttiva. Disprezzare, sì. Io vi disprezzo, non vi odio ma vi disprezzo, con i vostri libretti da due soldi, il vostro prosciutto tagliato fine, il vostro linguaggio dopato di inglese e smagrito di significato, di realtà e infine di identità.

Eppure il vuoto, il niente e il nulla, sono le fragili fondamenta sopra cui viene edificata la menzogna del soggetto. Diventare qualcosa serve dunque per comprendere – ma solamente alla fine, al termine della costruzione della propria torre – che siamo al fondo rimasti quel niente, un gorgoglio afasico prima di ogni altra parola. Diventare qualcosa per restituire quella cosa da nulla al Nulla, ecco. Farsi per disfarsi. Ma se questo tempo babelico, attraverso la confusione funesta dei suoi linguaggi, che prelude al crollo, potrebbe favorire proprio tale consapevolezza, nell'esperienza quotidiana è sempre più raro assistere alla più estrema e terribile delle agnizioni, quella della signora Bovary: ma allora è tutto finto, ho vissuto la vita di qualcun altro...

Resta per fortuna la nobile figura del disprezzo, e un unico problemino ancora da risolvere: la carrozzina, chi se la prende, adesso che lei se ne è andata con il prosciutto e l'ultimo best seller di Melissa Hill, chi se la prende la carrozzina con il pupo?

sabato 3 settembre 2011

Potatoes


Stavo facendo un esercizio di inglese, da eseguire per un corso on-line a cui mi sono appena iscritto. Wich goals did you reach until now in your whole life ? E venivano elencati una serie di tipici traguardi della vita: laurearsi; vincere una competizione sportiva; sposarsi; avere figli; andare ad abitare da soli; ottenere un lavoro desiderato; compiere qualcosa di importante o memorabile, fosse anche solo una scarpinata in montagna, o una nuova lingua appresa. Per quanto riguarda la lingua, che io fossi ancora lì, a quarantacinque anni suonati, ad armeggiare goffamente col present perfect e i maledetti phrasal verbs, la dice lunga sullo stato della mia arte: upper intermediate, hanno definito il mio livello dopo un breve test. Ma anche per quel che riguarda gli altri traguardi ipotetici, elencati sotto forma di casella da barrare, anche lì, buio completo: tra i molti indicati a mo’ di esempio, non c’era ancora un singolo “goal” che io avessi realizzato… E adesso come lo completo, lambiccavo tra me e me, il mio compito di inglese? Senza barrare alcuna casella non potevo infatti passare all’esercizio successivo. Mi sono dunque inventato la conquista dalla cima più alta del mondo: I climbed the Everest. Then – massì, esageriamo –, cause I was already there wearing mountaineering boots and with a big mattock, but most of all because there was nothing interesting to watch on tv, I decided to climb also the K2. Stremato a quel punto dallo sforzo di immaginazione alpina, ho spento il computer e interrotto la lezione. Dopo pochi minuti mi telefona un’amica dalla Val d'Aosta, chiedendomi, entusiasta, se sono mai stato nel posto in cui si lei si trova. No, I’ve nerver been there, le rispondo. Però sono stato sull'Everest e sul K2. Ah, and I've been on the top of Cerro Torre too! But this was in another time: you know, even in Argentina they have an awful television. Scusa, come mai parli inglese?, ribatte lei. Parli un inglese maccheronico e dici tutte 'ste cazzate. Allora io le spiego l'intera faccenda: i goals che non ho realizzato, i figli assenti, i lavori e i soldi e le occasioni e gli amori persi… Insomma, mi accorgo, parlandole, di essere in tutto e per tutto un fallito. Yes, I’m a drop out, and I’m not sure I still wish to keep on living… Ma prima che io termini la mia frase sconsolata e teatrale, mi interrompe la mia amica: Senti, se non ti spiace, queste cose me le racconti un’altra volta: ora devo andare a raccogliere le patate con i miei amici. Sai, qui in Val d’Aosta ci stanno delle patate bellissime. E orribili programmi in televisione.

(Ps – Credo che staremo ancora un bel po’ di tempo senza sentirci: la cartolina che vi ho appena inviato ha un'indicazione di provenienza, dove ci sta scritto, semplicemente, depressione. Mi interessa insomma molto di più occuparmi ora della mia vita e dei miei "goals" e della mia depressione, che non mandare cartoline a degli sconosciuti da luoghi in cui non sono mai stato, o dove se c'ero dormivo e soprattutto sognavo. Vi auguro dunque buone cose, and a lot of potatoes to fill up your television set.)

domenica 21 agosto 2011

TQ, un’ipotesi messianica


TQ, vediamo se ho capito bene. Un gruppo di scrittori, intellettuali, operatori culturali e più specificamente dell’editoria, si trova, un paio di mesi fa circa, nella sede romana dell’editore Laterza. Oltre alla professione, l’altra condizione di appartenenza è di tipo anagrafico: i partecipanti devono essere compresi tra i trenta e i quarant’anni, da cui la sigla TQ.

Gli scrittori e gli editori trenta e quarantenni discutono quindi sulle questioni decisive della loro attività. E lo fanno con fervore, spesso anche con acume intellettuale, umana generosità e qualche trascurabile vezzo. Tutto ciò ha un risvolto politico evidente: non si scrive solamente per sé, ma, c’è da sperarlo, per una comunità umana di cui si ha viva percezione. Dunque anche il lavoro editoriale possiede un risvolto politico, intercettando la narrazione che un Paese produce spontaneamente.

Tale implicazione politica del lavoro editoriale in TQ mi pare però che lieviti fino a diventare totalizzante. In fondo è naturale, direi addirittura saggio, che una categoria professionale (categoria spesso divisa per prassi individuale di lavoro) avverta il desiderio di incontrarsi. E dall’incontro il confronto su temi specifici o, appunto, e all’opposto, sulla generalità del proprio fare.

E’ viceversa una condizione atipica quella di un gruppo particolare – perché di questo si tratta – che si assegni un ruolo universale. Atipica ma non impossibile, e narrativamente documentata. Ritornano alla memoria quei racconti mitologici dove un eroe, o perfino un intero popolo, vengono investiti da una Forza superiore (in questo caso potrebbe trattarsi del Talento), che con stigma battesimale gli assegna un ruolo salvifico per l’umanità. Le successive azioni mirabolanti e perfino sacrificali non saranno quindi nel nome proprio dell'eroe: ma della Forza, che ne informa i gesti e tramanda la memoria.

Se ci pensiamo, tale schema sta alla polarità opposta di una logica corporativa, dove un gruppo limitato di persone si preoccupa – e unicamente si occupa – di tutelare i propri interessi privati, spesso a danno dei più.

Ciò che ho più apprezzato nei TQ è dunque e proprio l'impostazione “anti-corporativa”, se così la possiamo chiamare. Ma mi ha pure inquietato un po'. Qui infatti non si tratta solo di fare il proprio lavoro con perizia e responsabilità, come è stato suggerito da qualche scettico, tra cui spicca l’assennato intervento di Giulio Mozzi. Oppure, con una passione che tradisce il suo ruolo defilato, da Giorgia Fontana: che minaccia addirittura di incazzarsi “sul serio”, se i propositi operativi del manifesto dei TQ non verranno rispettati.

Eppure, a me sembra evidente che non ci troviamo al cospetto di una semplice espressione, benché opportunamente formalizzata, di intenti pragmatici e funzionali. Piuttosto qualcosa che ricorda l’ipotesi messianica appena descritta: l’eroe giovane e illibato che salva non solo la società letteraria vecchia e corrotta, ma la società tutta, il mondo intero.

O detta in altre parole: questa è mitopoiesi, prosecuzione del lavoro letterario con altri mezzi, non la normale pratica di una gilda professionale equilibrata e responsabile.

Da gruppo particolare ed esclusivo, i TQ si propongono così di salvare l’Italia dal berlusconismo, emendare la decadenza diffusa dei tempi, sconfiggere la barbarie morale. Senza voler aggiungere la mia gocciolina al mare già troppo agitato della polemica, mi limito a constatare che c’è qualcosa di avventuroso, se non di equivoco, in questa supplenza dell’azione politica da parte di un consesso virtuoso, ma comunque caratterizzato per anagrafe e professione.

Insomma, mi sentirei molto più rassicurato se fosse il solito eroe efebo e biondo a trafiggere il drago. O, in una più mesta alternativa, vorrei continuare a essere rappresentato da una normale dialettica democratica. Dove l’età non fa da discrimine a una partecipazione attiva, e ancor meno l’occupazione.

lunedì 15 agosto 2011

Brutta fine, o su come andare a ramengo col sorriso sulla bocca


Forse finire male, pensavo questa sera, ferragosto, la ribollita Arnaboldi che borbotta in un pentolino troppo piccolo, forse finire male o fare una brutta fine non è lo stesso che morire, sono cose profondamente diverse. Perché morire, oltre a essere un fatto naturale, prima cucchiata di ribollita in quest'estate già autunnale, morire è anche o soprattutto una tragedia. Ossia un evento intimamente paradossale, un dover essere – morti – che si contrappone a un dover essere altrettanto urgente: vivi, essere ma soprattutto rimanere vivi; almeno in quella parte di noi che non riesce a pensarsi se non come presenza, eternità concentrata in puntino che dice io. Nemmeno il linguaggio, riflesso sedimentale dei processi cognitivi, dispone di strumenti per render conto di questa condizione scissa: esprimere soggettivamente l'inconsistenza del soggetto, indipendentemente dal tempo in cui si voglia coniugare l'evento tragico. Da ciò deriva che anche l'inesistenza anteriore, la vita prima della nostra vita, è impensabile e dunque indicibile, qualcosa di scandaloso. Ma finir male, fare una brutta fine, andare a ramengo o a scatafascio, sono espressioni che rimandano a tutt'altro orizzonte di senso. E in effetti, si finisce male non quando si finisca letteralmente qualcosa – la vita, nella fattispecie – ma per così dire la si pre-finisca, ritrovandosi confinati in un limbo che dell’esistenza individuale falsifichi la premesse ideali, scaturite dal suo fondo sommerso e desiderante. In altre parole, fare una brutta fine corrisponde a smentire il proprio inizio, a tradire l'immagine di sé simbolizzata in una fase precedente. Eppure, in questo diffuso declinare delle attese giovanili, il più delle volte non si consuma una vera tragedia. Anzi è tutto all'opposto della tragedia (che come abbiamo visto nasce da una biforcazione delle istanze vitali), e cioè un processo dialettico di adeguamento alle condizioni esistenti, alla contingenza della vita quand'anche dolorosa o meschina. Mentre vivere in un orizzonte tragico equivale a rifiutarsi, intimamente sottrarsi alla scorciatoia di far necessità virtù, come si usa dire come monito virtuoso. Deve essere questo il motivo per cui attorno a me, tra i miei conoscenti, gli amici e fino al riflesso dello specchio che restituisce il mio profilo dentro una nebbia soffusa, non vedo esistenze realmente tragiche o disperate. Semmai mi ritrovo in un girone di ignavi, ma in fondo conciliati con la vita, se non mai con se stessi. L'immagine potrebbe essere quella di un vecchio carrozzone, affollato degli interpreti di un circo itinerante e sgangherato: ammaestratori di pulci, donne barbute e pagliaccetti che conducono esistenze contraffatte. Ma quando si accendono i riflettori e si ritrova al centro della pista, la combriccola diviene esuberante e festosa, si fan scherzi l'uno con l'altro e perfino le puzzette, incolpando poi quello più magrolino o con l'abito da Pierrot. Sì, tutta gente che va a finire male, malissimo e anzi già ci sono finiti: una mala vita, una vita che non è quella su cui avevano appuntato il loro distintivo scintillante. Eppure hanno, anzi abbiamo un sorriso appena accennato sulla bocca, mentre mangiamo la zuppa Arnaboldi in ampie e ricche cucchiaiate. Un sorriso, sì, un sorrisino come quello del monaco Zen, che muore sognando di vivere nel migliore dei mondi possibili...

domenica 14 agosto 2011

Noona, o sull'infinita reversibilità dell'esperienza


Uno dei rimproveri più frequenti che mi faceva mia madre, da bambino, era di non aver arrotolato bene il tubetto del dentifricio. Ma anche quello della maionese. Ma anche quello del latte condensato. Ora che ci penso, il mondo si presentava con un’incidenza maggiore di adesso nella forma di tubetto, quando ero bambino, intorno alla metà degli anni settanta.

Negli anni settanta lasciare del dentifricio – e della maionese e del latte condensato – in un tubetto mal arrotolato equivaleva certamente ad uno spreco. Ma non solo. Mi accorgo infatti che, nel rimbrotto ricorrente e non sempre affettuoso di mia madre, ci stava una sfumatura di carattere che potremmo definire simbolico, e in ogni caso non semplicemente economico. E cioè prima di passare a un nuovo tubetto – dimenticavo: anche i tubetti del pomodoro Star a doppia concentrazione hanno avuto un ruolo decisivo nella mia infanzia, specie quando era mio nonno Pinin a spremerli dentro i toast con prosciutto cotto e bustine Kraft, con gran cura successiva nell’arrotolarli – prima di passare a un nuovo tubetto dicevo, come faceva Pinin, nemmeno una goccia di pomodoro Star da consegnare al bidone dell'immondizia, è necessario terminare l’esperienza del tubetto che abbiamo in corso.

Sì, ho parlato proprio di esperienza, non di utilizzo. E ciò perché, o almeno questa è la mia impressione, negli anni settanta si tendeva ad avere un rapporto diverso con la quantità di merci che iniziavano a riversarsi nelle nostre vite: un rapporto antropomorfizzato, potremmo dire, o comunque vitale, significativo. Acquistare un nuovo elettrodomestico – mettiamo un frigorifero o una lavatrice, per non dire un televisore a colori! – si trasformava infatti in un rituale festoso, a cui partecipava l’intera famiglia. Si usciva di casa il sabato pomeriggio, qualcuno ti vedeva vestito per bene, magari un tuo compagno di dottrina, Guido oggi non vieni all'oratorio, c'è un torneo di ping pong? Ma il compagno di dottrina non doveva nemmeno aspettare la tua risposta, perché dal modo in cui sorridevi già lo capiva: quel pomeriggio non potevi andare all'oratorio come al solito, era un giorno diverso, importante, eccezionale, perfino "più eccezionale" del torneo di ping pong: quello era il giorno in cui stavi andando a prendere il frullatore nuovo, insieme a mamma e papà...

Poi il frullatore veniva posato con delicatezza al centro del tavolo di soggiorno, come un cucciolo appena adottato e ancora tremante di paura; quindi scartato, traguardato prima da lontano e poi sempre più da vicino; infine veniva compulsato il libretto delle istruzioni, commentando tutti assieme e perfino sottolineando, con un evidenziatore Satabilo Boss. E ciò non solo per un'obiettiva ingenuità tecnologica, dei padri quanto dei figli, ma perché quel frullatore doveva funzionare fino a che non si guastava, si spera il più tardi possibile. Gli oggetti andavano cioè vissuti fino in fondo, non consumati come ora vogliono farci credere con lo spregiativo termine di "consumismo", e arriverei perfino a suggerire che bisognava ultimare qualcosa come una parabola esistenziale delle merci, che è cosa ben diversa dalla semplice funzione.

Ecco, lo stesso rapporto riguardoso e deferente lo si aveva anche nei confronti di un modesto tubetto di dentifricio Acquafresh, oppure di pasta d'acciughe Balena, di tempere Giotto. Quella era infatti pura esperienza del mondo, mica solo acciughine triturate, vampe di colore, onde bianche, azzurre e rosse di mineralsmalto al fluoro.

Mi sono ritrovato avvinto in queste tenere memorie di cose, robe, realtà tangibili ma non per questo meno astratte e affettive, ripensando alle recenti discussioni sulla differenza tra Twitter e Facebook. La forma di Facebook, si diceva, privilegia più l’elemento emotivo, di comunità espressiva e umorale, mentre Twitter favorisce l’emergere di contenuti razionali, lo scambio di informazioni. A tali network sociali numericamente più consistenti, bisogna poi aggiungere l’abbondanza di altre comunità che nascono e prosperano sul web, tra cui i siti, di cui ho già scritto diffusamente su questo blog, in cui è possibile ricercare l’anima gemella o l’amore di una sera. In ogni caso, e senza voler riprendere nel merito l’intera discussione, a me sembra che tutte le comunità su internet somiglino a dei tubetti mal piegati, e presto gettati via.

Intendo dire: uno degli effetti più rilevanti di queste nuove forme di relazione è che si tende a passare ad altro, a una nuova informazione su Twitter, uno scintillante e inatteso amico su Facebook, senza però aver strizzato il contenuto di esperienza che aveva da offrici l’amico precedente, o trasformato l'informazione in cultura per mezzo del decantare critico dell'esperienza. Anche con Meetic funziona a questo modo. Si passa da un potenziale amante al successivo, di promessa erotica in promessa, senza perlopiù esporci ad alcuna esperienza reale dell’Altro, in preda alla più moderna mitologia che è quella della reversibilità: tutto è sostituibile, rinnovabile, al punto che viene il sospetto che sia proprio tale condizione di eterna possibilità (una cornucopia obesa che erutta occasioni a getto continuo) a costituire il cuore umido del piacere tardo moderno.

L’esperienza è un vincolo, in altre parole, già che l’esperienza si fa memoria e la memoria limita l’eternarsi della possibilità, andando a definire il futuro entro le strutture costrette della ripetizione (possiamo chiamarla anche reciprocità, che è ripetizione simmetrica e volontaria). L’intelligenza dei tempi nuovi ha però saputo smarcarsi dall’agguato della ripetizione attraverso la mossa scacchistica dell’arrocco: al posto dell’esperienza, su Twitter, su Facebook e su Meetic, viene così celebrata la figura neo-mitologica dell'indefinita novità. Potremmo chiamarla Noona, sorta di musa contemporanea ma senza nome: perché il nome è il graffio formale dell'esperienza, e Noona non possiede alcuna esperienza del mondo, è senza passato ma nemmeno futuro, tutta compresa in un presente germinale e desiderante.

L’unica accortezza che dobbiamo usare per mantenerci dentro l'eterno, ma allo stesso tempo inaudito, mai verificato canto di Noona, è dunque quello di cambiare continuamente lo stimolo, prima che si traduca in esperienza. Ciò comporta l'urgenza di gettare il tubetto di dentifricio, l’amico, l’amante molto prima che sia terminato. E così all’infinito: di tubetto in tubetto, di flirt in flirt, di notizia in notizia in un viaggio che per definizione non può avere termine, quando la meta è il permanere in una condizione di eterna equidistanza da ogni compimento, ogni esperienza e infine anche ogni responsabilità. Responsabilità che in fondo non è altro che il debito significativo di una risposta, avvertito nel passato nei confronti di un interlocutore anche occasionale, e ora degradato a funzione plastica di ornamento.

Ci troviamo insomma dentro un guado storico, che muove dal terreno solido dell'esperienza significativa – potremmo chiamarlo il tempo pesante del giudizio morale – a quello mobile e fluttuante dell'inesperienza espressiva: lo spiluccare mai sazi, gli assaggini sul bancone dell'happy hour, e che potremmo battezzare di converso il nuovo tempo leggero, anzi light, del pregiudizio estetico. Ma in questa progressiva perdita di zavorra e consistenza delle nostre vite, siamo scortati da almeno un'utopia residua: che il nostro prossimo, in senso cronologico, sarà sempre meglio del prossimo evangelico e spaziale. O detta in una sola battuta: avanti un altro!

PS - Sul tema, consiglio la lettura di questo libro straordinario: L'autoreverse dell'esperienza. Euforie e abbagli della vita flessibile (Saggi. Arte e letteratura)

martedì 2 agosto 2011

Borghezio, o sulla polenta come fattore politico


Ecco, io pensavo, ma se Breivik scriveva invece che gli piace la polenta, sul suo blog o sito internet o dove cavolo scriveva, se Breivik scriveva questa cosa qui e non che bisogna difendere l’Europa cristiana, e bionda e con gli occhi azzurri non dimentichiamoci alta, anzi grande! , difenderla dall’invasione mussulmana, una razza piccola che di grande ha giusto i cammelli e le piramidi, per le quali in verità non ha fatto molto, se le è trovate lì già belle e fatte, e anche i cammelli, dal buon Allah, che a ben vedere poteva farli un po' meglio e con un po' di impegno e senza tutte quelle gobbe, poi deve aver fatto i dromedari, appena un filo più riusciti, perlomeno di gobba ne hanno una soltanto nel mezzo, non sta mica male, da cui deriva che quello sul pacchetto delle Camel è certamente un dromedario, non un cammello come vogliono farci credere, i mussulmani dicevo che sono molto ma molto più piccoli delle piramidi, con gli occhi neri e, pare, almeno così mi hanno riferito, svariati tra loro mostrano i segni inequivocabili di una cifosi dorsale, più comunemente detta gobba etc etc... No, semplicemente la polenta: Breivik scriveva che gli piace la polenta. E così Borghezio rispondeva l'intervistatore domanda e lui risponde, di solito funziona così che la polenta è un piatto condivisibile, usava proprio e ancora l'aggettivo condivisibile, specie quella con il formaggio fuso, la polenta taragna, che è addirittura altamente condivisibile, anzi ottima, come piatto, in particolare d'inverno per il suo alto valore nutritivo e calorico, a cui far seguire una bella grappetta e una sigarettina, magari una Camel, che è quella con il dromedario stampato sul pacchetto, ricordate, ecco, io pensavo, ma succedeva lo stesso tutto 'sto casino?

Voglio dire, e questa volta lo dico chiaramente: le idee di Borghezio sono oscene di per sé, per quel che dicono e si propongono di fare. Non per l'occasionale coincidenza con le idee espresse da altri, e nella fattispecie da Breivik, verso le quali ha manifestato il suo in fondo ovvio favore (Breivik scrive cose che Borghezio va ripetendo da anni...) durante un'intervista radiofonica. E cioè le idee di Borghezio sono oscene, stupide, aggressive, mortifere indipendentemente dal fatto che uno schifoso assassino le propugni pubblicamente, e viceversa. O detta in termini filosofici, proviamo a seguire questo sillogismo:

1) Anders Behring Breivik è un pericoloso pluriomicida, premessa maggiore.

2) Anders Behring Breivik ha dei pensieri, premessa minore.

3) Dunque, chiunque condivida i pensieri di Anders Behring Breivik è un potenziale e pericoloso pluriomicida, conclusione.

No, questo non era un sillogismo, era un falso sillogismo. Perché la presenza contemporanea, in Breivik come in chiunque, di comportamenti e di idee, non istituisce immediatamente un rapporto di consequenzialità diretta tra i due ambiti; che per altro neppure si escludono, sono per così dire compatibili. E in ogni caso se un criminale esprimesse il suo gradimento per la polenta o la pizza o qualsiasi altra cosa, non squalificherebbe automaticamente la polenta o la pizza o qualsiasi altra cosa. E ciò perché sono circostanze parallele, non verticalmente legate.

Sarebbe dunque utile non perdere il senso logico della concatenazione dei pensieri con i fatti, specie in questi drammatici momenti. E se stiamo a quelli, ai pensieri così come si mostrano, indipendentemente dalla contingenza dei fatti, ne abbiamo già a sufficienza per dire quanto sia scandaloso quel che pensano e affermano entrambi: Anders Breivike e Mario Borghezio. Che, per pura coincidenza, lo pensano e affermano assieme, ma che rappresentano due nemici assai diversi (sì, ho scritto proprio nemici).

domenica 31 luglio 2011

Comunicazione di servizio

Qualcuno mi ha chiesto come mai l'ho cancellato dai miei "amici" su Facebook. No, io non ho mai cancellato nessun "amico", su Facebook. Sono viceversa io ad essere finalmente riuscito a cancellarmi, dopo un primo tentativo andato a male, per ragione tecniche, nei mesi scorsi. Niente di personale, dunque. E' un po' la differenza che passa tra un omicidio e un suicidio - con la differenza che io neppure escludo di poter riaprire un nuovo profilo, in un futuro su cui non ho fretta di apporre alcuna etichetta temporale. Chiedo dunque perdono a tutti quelli che non mi hanno più trovato tra i loro contatti su Facebook. E per piacere, come disse quel tale, niente pettegolezzi...

Ever green


Nel cuore della città vecchia i figli nuovi della città giocano a bigliardino, bevono una birra leggera e frizzante al gusto di banana – ma il pallore della bevanda ricorda piuttosto la Lemonsoda, asprezza di limone che si stempera nel languore denso del glucosio – e quando si incrociano salutano con quel tipo di confidenza che hanno tra loro i medici in ospedale, come se le flebo e le barelle e NON ENTRARE!, attenzione, radiologia, come se tutto ciò non lì riguardasse, fosse solo il fondale di cartapesta di una messa in scena nemmeno troppo accurata, eccessiva, compresa la lenta traversata della suora per il corridoio lungo e sovraesposto dai neon, con il pitale colmo da svuotare. Il dolore del mondo diventa così solo un’ipotesi operativa, la biglia della roulette che ogni tanto inciampa sullo zero: les jeux sont faits – ma sono fatti già da sempre, se non dal principio, come si dice, i giochi, oppure è il capriccio dell’attimo che ne rivela la sagoma sempre deludente, beffarda? Al tavolo a fianco colgo solo qualche frase smozzicata: e poi gli ho detto… e poi gli ho dato… e il giorno dopo, lo rincontro in giro, sono con la mia ragazza, ne vuoi ancora? gli dico. Da come ridono gli altri, mi sembra di intuire che stiano parlando di pugni – in particolare osservo quello più vicino a me, di cui scorgo solo il profilo affilato, a cuneo, che spicca dal collo rialzato della Fred Perry: ha lo stesso modo sornione di porgere l’approvazione che aveva un mio conoscente a quella stessa età: Infiammato, lo chiamavamo per il suo insaziabile appetito erotico. In seguito Infiammato – è lui stesso a lasciarlo intendere, con il solito sorrisetto sornione – pare abbia seguito con successo un programma di allenamento per migliorare le prestazioni sessuali, oltre alle dimensioni del membro. E di nuovo les jeux sont faits, oppla! Ma il croupier lo scandisce poco prima di conoscere dove la biglia va a posarsi: è un’anticipazione, a ben pensarci, una profezia che tace il suo oggetto ma rivela la cosa più importante: le cose sono già prima di essere le cose, anche solo un attimo prima, non importa, e però in quell'attimo non siamo ancora in grado di vederle, per quanto già abbiano una consistenza certa, come sa bene il croupier. In un diverso tavolo, alle nostre spalle, un quartetto maturo discute di politica – o meglio discute animatamente di politica, ogni tanto gli avverbi hanno ancora un senso e una funzione. Come se l’anima sgorgasse a rapidi fiotti dalle labbra incorniciate da una folta peluria, barbe e baffi morbidi e setosi, con un lieve alone giallastro creato dalla nicotina di pipa e sigarette in quantità, mentre le mani si agitano nell’aria fresca di un’estate che non è fredda, piuttosto frigida, intemperante, che è un altro termine derivato della meteorologia. Altri invece lo chiamano tempo – le previsioni del tempo, che tempo ha fatto in vacanza? – lasciando intendere un’affinità tra le condizioni ambientali e lo scorrere irreversibile dei minuti. In ogni caso, quelli se ne fregano non solo dell’arietta fresca ma anche dei minuti, di qualsiasi tempo massimo offerto dalla Storia, che contempla invece un tempo ricorrente, da cogliere al volo – Kairos, lo chiamavano i greci, e gli antichi cinesi Tao. Come per i taoisti, il segreto dei politici sta dunque nel riconoscere il tempo opportuno, nello snidare Tao\Kairos, per conferirgli la forma stabile e incorruttibile del tempo messianico: una specie di serra in cui non piove mai e il sole splende su fragole grasse e mature, zucche giganti che si trasformano in carrozze. Sarà per questo che l’anima deve essere pompata fuori dai polmoni: per spegnere tutte le candeline della torta. Condizione necessaria a che il banchetto abbia finalmente inizio, in un furioso protendersi, avventarsi, ingozzarsi di fragole e panna morbida e illibata, quando c'è sempre il dubbio che la carrozza possa ridiventare zucca. Il Popolo, sento quindi dire. Dovremmo recuperare la nozione di Popolo. Dare un segno chiaro, riconoscibile, per il Popolo. Poco prima, diverso luogo, la stessa sera, una bella e giovanissima ragazza di Shanghai – è arrivata a Sondrio da una settimana solamente – tentava di ripetere alcuni vocaboli italiani: cappuccino; Campali; limoncello (questo è facile); Monteneglo (questo è difficile); plosecco; billa alla spina; glappa; glappa al miltillo (difficilissimo!); succo di pela, pesca, albicocca. C’è era anche Lemonsoda, inserita nella lista di parole da apprendere stilata dalla zia, di pochi anni più vecchia ma in Italia da molto più tempo, dove gestisce il bar in cui assistiamo alla scena. O più propriamente si trattava di un siparietto didascalico: da una parte gli italiani, noi, con calice in mano e infinita stanchezza, e dal lato opposto del bancone la giovane cinese diligente, che tra sé e sé almanacca il misterioso alfabeto della futura conquista, che non sarà di ferro e fuoco ma di cappuccino con bliosc; e però solo al tempo opportuno stabilito dal Tao, o da Kairos. Vorrei allora replicare al suo assalto quieto con la mossa dell'arrocco: chiedendole, ad esempio, come si dice invece anima in cinese, o popolo o rivoluzione... Vorrei chiederglielo ma sono ormai a un fotogramma successivo, questa è l’impressione; un’impressione generale, intendo: tutto qui appare fuori sincrono, sembra di assistere ai monologhi televisivi di un critico cinematografico che viene doppiato da se stesso, sempre in ritardo di una battuta o chissà forse in anticipo di un'intuizione folgorante, un evo astrale. E' simile, in ciò, a un celebre ritratto in cui il volto di Mao, passando attraverso il filtro ottico di Andy Warhol, si frantuma in tante figurine policromatiche, producendo un generale vuoto di senso che, per paradosso, ci comunica un sentimento di pienezza, il calmo attenuarsi del prurito che causano le domande senza risposta, o lo slancio verso un luogo ulteriore e aperto del pensiero. Saturazione, potremmo chiamarla così. Al punto che ci diventa del tutto indifferente se ciò che si delinea in superficie sia la sagoma di Mao Tse-Tung, Marilyn Monroe, Elvis Presley, Jakie Kennedy, Miky Mouse o della zuppa Campbell. Ma il tempo messianico della politica, non sarà allora proprio questo: la coincidenza tra essenza ed ornamento? E' infatti in quel preciso frangente – o meglio in questo attimo di totale oblio, che sperimento osservando il sosia di Infiammato alzarsi dalla sedia – che si estingue anche il dolore, coincidendo con la rappresentazione del dolore, il soggetto con l'oggetto, lo show – o ciò che appare per come appare, il facciamo finta che dei bambini – con l'oscenità di quel che è necessario tacere, perché l'antico gioco del significare possa ancora aver luogo... Rimane dunque solo da rispondere alla cameriera, che sta aspettando con la penna bic che oscilla insieme al busto sui talloni, come la bacchetta del rabdomante: Cosa prendete, allora, avete deciso? E dopo una breve pausa: Posso consigliarvi una birra che non sa di birra ma di banana... Sapete, è il nostro ever green.