giovedì 6 ottobre 2011

Gli zoccoli della Konarmija, una cavalcata nella steppa del presente


Quando, durante una conferenza, oppure a teatro, a un concerto di musica classica e comunque in genere in un momento di particolare rarefazione emotiva, quando, ecco, un bambino piccolo piccolo inizia a piangere o a fare strani versetti con la sua vocina, poi si distacca dall'abbraccio tiepido della madre - è una giovane e bella donna con i capelli ricci chiusi in un arruffato chignon, gli occhiali da vista dalla montatura spessa - e inizia a caracollare tra le file serrate di poltrone come un gattino tra le zampe dei cavalli dell'armata cosacca della Konarmija, mentre il pubblico seduto compostamente in sala finge unanimente di non sentire, e lo stesso il conferenziere, gli attori, i musicisti, nessuno sembra accorgersi di quella minuscola presenza che invece reclama una piena e totale flagranza, così quanto più quelli lo ignorano quanto più l'altro strilla, afferra un attempato commercialista per il lembo della giacca e lo strattona, ma lui niente, solo un commosso sorrisino all'indirizzo dei genitori - anche il padre porta occhiali da vista, ma leggeri e dalla lente fotocromatica, con il cordino che ondeggia sopra al coccodrillo dalla fauci spalancate della Lacoste - i quali genitori ricambiano compiaciuti e garbati, quasi che l'incursione fragorosa della propria creatura si appuntasse scintillante sul bavero del giubbino di jeans alla maniera di una medaglia al valor militare, meglio ancora un titolo onorifico per qualche gesto di estrema utilità sociale, del genere aiuta una vecchietta ad attraversare la strada, o infila la cacchina del cane dentro un sacchetto marrone per poi trasportala con il naso arricciato nell'apposito contenitore, cose così, che fanno sentire le persone un Popolo, un Paese civile fondato su valori quali la tolleranza, l'amore e il rispetto per i cuccioli della propria specie, circonfusi da un alto e nobile sentimento democratico che c'è, o meglio c'era, fino a che non si sente un colpo di tosse da una posizione defilata e ombrosa della sala, poi una voce, per piacere, potete portare fuori quel bambino, qui c'è gente che vorrebbe continuare ad ascoltare, grazie, e allora è tutto un girarsi di spalle, una torsione del collo e un roteare vorticoso delle orbite, nella vana ricerca di individuare chi ha interrotto in un modo tanto brusco l'idillio, deve essere certamente una persona insensibile, un animo rozzo, peggio, un mostro, e sono le stesse volte in cui io mi trovo a ripensare agli zoccoli della Konarmija, a quando Semën Budënny mise assieme quattro disgraziati e i loro ronzini e lì chiamò "Cavalieri del Don", e il bello fu che loro ci credettero, al punto che in pochi mesi già stavano dando del filo da torcere niente di meno che all'Armata Bianca di Anton Denikin, fu poco prima dell'ingresso trionfale a Mosca con i Bolscevichi, la campagna ucraina contro i polacchi nel Venti, Kiev sbaragliata ma si trattava di un fuoco fatuo, che aprì la strada alla terribile sconfitta nella battaglia di Komarów e poi ancora la Siberia, l'Asia Centrale, Kraj di Altaj, la Mongolia, fino a che la leggendaria Prima armata di cavalleria russa terminò il suo viaggio in Manciuria e Kamčatka, con l'ultimo combattimento nel settembre del 1924, quando fu conquistata l'estrema Penisola di Chukchi... Cosa c'entra tutto questo, direte voi? Perché, davvero qualcuno pensava che mi importasse qualcosa di uno stronzetto di tre o quattro anni che, per giunta, rompe i maroni a due o tremila maschi adulti senza nemmeno uno con le palle di prendere per le orecchie i genitori e accompagnarli gentilmente all'uscita, come un fante con il suo cavallo sfinito dopo giorni e giorni di marcia nella steppa?

4 commenti:

  1. Condivido, Guido, ma credo che il valore del rispetto per sé e per chi ci circonda sia arduo da tramettere a queste nostre propaggini umane se non lo si pratica anche e soprattutto nei confronti dei nostri "gattini arruffati"...

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  2. cara MaryAngel, per quel che mi riguarda io preferirei evitare di giudicare la radice dei comportamenti, ma limitarmi alla loro emergenza pubblica, per così dire. e dal momento che io non ho "gattini arruffati", non ho insomma figli, non ho la minima idea di quel che dovrebbe fare o non fare un genitore, e a dirla tutta mi interessa anche poco. ciò che io lamento è piuttosto la socializzazione non richiesta dell'accudimento genitoriale, il dare per scontato che a me possa importare qualcosa di quel che fa tuo figlio, tanto più se interferisce con un momento di attenzione verso altro, di un piacere mio. nella diffusa esibizione della garrula anomia della propria prole, ciò che implicitamente passa è dunque un'idea gerarchica, che vede la libera espressione di un bambino, o meglio del "mio" bambino, più importante della limitata impressione di un adulto. ecco, questa è per me un'idea falsa, probabilmente ereditata da una malintesa digestione degli sessanta e settanta. o meglio è un'idea stupida, un'idea molesta. e anche in quelle società tribali (o arcaiche)in cui la vita sociale è più partecipata e la cura dei figli condivisa, esistono robusti vincoli formali all'espressione, sia degli adulti sia dei bambini. beh, forse allora è il caso di ripensare all'ilare parodia del bunga bunga, e vedere quel che quelle comunità hanno ancora da insegnarci: sia per i figli invadenti e chiassosi, ma soprattutto per genitori compiacenti e compiaciuti...

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  3. Caro Guido,
    concordo, ma come mamma, e quindi come educatrice, non posso prescindere dal giudicare la radice dei comportamenti, mi sento coinvolta in modo quasi diretto, emotivamente, e ti dico così perché solo in questo modo mi piace leggere: ho la presunzione di pensare che chi scrive, non scriva solo per il gusto di scrivere, ma scriva per i lettori, per trasmettere qualcosa, per entrare in empatia. Leggere le tue righe mi fa anche riflettere. Perché io, invece, almeno un pargolo l’ho voluto crescere ed ho accettato questa incerta ed improba ma meravigliosa sfida della vita, oserei dire una delle poche cose per cui vale davvero la pena vivere. Non che il fatto di per sé di aver generato mi possa rendere una donna migliore o peggiore di tante altre che non l’hanno fatto o non han potuto farlo, ma perché io ho avuto, posso dirlo, la fortuna e la volontà di provarci in modo responsabile. Provare a crescere una persona per bene, dargli il meglio di noi, sempre, con tutte le incognite e gli imprevisti e le incertezze del caso, credo sia una prova d’amore ed anche una materializzazione della fiducia nell’umanità e nella società futura.
    Entrando nel merito del tuo racconto, credo sia oltremodo irrispettoso, proprio nei confronti della piccola creatura, qualora non abbia ancora raggiunto l’età della ragione, trascinarla come un cagnolino al guinzaglio pronta per la sfilata, in uno spazio ed in un contesto a lei per nulla confacenti. E credo anche che i genitori che non rispettano neppure i tempi ed i modi del proprio figliolo, non riescano a farlo neanche nei confronti della collettività e non possano pretendere che lo facciano altri, né tanto meno che siano altri a trasmetterli a lui. Una valida alternativa sarebbe quella di farli crescere nella giungla, lì quantomeno imparerebbero la legge del più forte, e, qualora sopravvivessero, molto meglio il RISPETTO reciproco, anche e soprattutto nei confronti della natura. Però credo ancora che il modo d’essere, i comportamenti, le parole non urlate ma sussurrate, i messaggi scritti, i pensieri positivi, i gesti gentili e d’amore, facciano ancora la differenza ed aiutino a far diventare i nostri pargoli delle brave e belle persone… e che voglio credere, siano, almeno in parte, la nostra proiezione futura.

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  4. MaryAngel, scusa la brutalità: ma su come crescerà o non crescerà quel bimbo, davvero a me non importa nulla. ma provando a seguire il tuo appassionato discorso, non credo che fossero molto più delicati, sempre verso "la creatura", i riti di iniziazione arcaici alla vita adulta, dove i fanciulli venivano sottoposti a prove spesso tremende, per il corpo e per la mente. ma al di là, ancora, del giudizio pedagogico su quelle prove, bisogna riconoscere che contenevano qualcosa come un modello di socialità, ossia l'idea che le nuove generazioni si iscrivono dentro un mosaico molto più grande della puntualità del loro manifestarsi al mondo. ecco, ciò che ora mi pare sia andato perduto è allora proprio il senso di una prospettiva storica ed antropologica, che ora porta a vivere la paternità e la maternità in un modo eroico ed esclusivo. quando invece, fare un figlio, davvero è la cosa meno esclusiva e viceversa più semplice che ci sia, almeno per un maschio. basta una scopatina. mentre viene confusa l'irresponsabilità pedagogica e culturale - cioè a dire l'incapacità di offrire dei modelli, al costo di imporne le pratiche - come lungimirante liberalità. ecco, che questa lungimirante liberalità fosse confinata tra le mura di questi campioni di progressismo, se non altro...

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