venerdì 15 agosto 2025

Fantasmi (mi ricordo 45)

Mi ricordo l'insinuarsi delle nuvole fin dentro i porticati del collegio di Celana, accadeva di frequente nei giorni di maltempo, uno avrebbe potuto confonderle con nebbia o con fantasmi che si erano smarriti. Dopo un'abbondante colazione io andavo incontro ai fantasmi e raggiungevo i bagni nel cortile esterno, dove mi rinchiudevo e poi accendevo una Marlboro.

Non lo facevo per nascondermi, avevo il permesso di fumare sottoscritto dai genitori. Erano sette minuti di raccoglimento a occhi chiusi, sette minuti, tanto dura una Marlboro, con le gambe divaricate ai due lati dell'abisso della turca. Mi servivano per iniziare la giornata che si sarebbe conclusa con un film, a selezionarlo era Don Gino attento a evitare scene scabrose, peggio che mai l'intercalare di Tomas Milian nei panni dell'ispettore Giraldi. Sette minuti. Come la chiavetta sulla schiena per caricare il soldatino. 

Naturalmente è una metafora, ma davvero avevo l'impressione che ogni volta che si ravvivava la brace della sigaretta e i miei polmoni assorbivano nicotina, io accumulassi energia potenziale elastica, da convertire in cinetica nel corso delle ore successive. Mi doveva servire fino a quando ci saremmo avviati ai dormitori, dopo la consueta preghiera collettiva, in un tempo in cui era collettivo ogni altro momento tranne le funzioni corporali, e scandito da un minuzioso cronoprogramma dettato dai preti. Il giorno dopo si ripartiva con un altro giro di chiavetta, quella mattina le lezioni iniziavano con l’ora di inglese.

Il professore risaliva la strada innevata a bordo di una Lancia Fulvia color amaranto, già allora veniva considerato un modello superato, altre vetture si contendevano le vetrine dei concessionari in quell’inverno del 1983, pochi giorni prima Tiziana Rivale aveva vinto il Festival di Sanremo con Sarà quel che sarà. Era un bell'uomo con i baffi, il professore, poteva avere una quarantina d'anni, e folti e arruffati capelli castani, l’espressione arguta ma sempre un poco triste. Ho scordato il nome e anche il cognome, succede. Chiamiamolo Alfonso. Mi sono fatto l’idea che con una faccia così doveva chiamarsi Alfonso, o comunque uno di quei nomi un po’ anacronistici, come la sua Lancia Fulvia berlina. 

Entrato in classe si capì subito che era un giorno diverso dagli altri, gli occhi di Alfonso erano più tristi del solito. "Oggi non facciamo lezione" disse senza tanti giri di parole. "Per favore non chiedetemi la ragione. Ma bisogna pur impiegare i nostri sessanta minuti, e così ho portato questo." Estrasse dalla cartella di pelle consunta un registratore portatile, l’audiocassetta era già inserita, schiacciò un tasto e cominciarono a uscire le note, la qualità audio era disastrosa. "È la Petite Suite di Debussy" disse dopo una decina di secondi di sorpresa.

"Un compositore inglese? Fa parte del programma?"

A parlare era stato Tomasoni, d'altronde aveva prima alzato la mano, era il capoclasse e si sentiva in dovere di indagare. Alfonso sembrò per un attimo ritrovare il barlume di un sorriso. "No Tomasoni, non fa parte del programma. Con l'inglese non c'entra niente, nemmeno con i motivi per cui i vostri genitori vi hanno mandati qui per studiare la ragioneria: chi in futuro accoglierà i clienti allo sportello di una banca, chi gestirà l'impresa di famiglia. Non sempre si possono fare cose utili a uno scopo" aggiunse, "e Debussy non serve a niente. A NIENTE" ripeté come se questo termine gli si fosse incastrato tra i denti. "Ma ascoltatelo lo stesso."

Non so quantificare il tempo trascorso, lui alla cattedra con le mani immerse nella selva dei capelli, il suo dolore pareva diventato immenso, noi in silenzio con i gomiti sui banchi in legno massello. A parte Tomasoni, gli altri avevano intuito che si stava manifestando un altro tipo di fantasma, gli archi erano subentrati al prevalere iniziale dei fiati, che comunque continuavano a dettare la linea melodica. Poi il merlo di Don Gino gracchiò un suono prolungato dallo studio in fondo al corridoio, ma sembrò venire incorporato nella composizione. In quel momento tutto si teneva in un'unica cornice sconfinata.

Non che fosse il nostro genere preferito, ma forse perché inattesa, la situazione prima ancora della musica, ci stava parlando uno per uno, non alla seconda B. L'inutile aveva fatto irruzione in forma organizzata e transitiva e finalmente ammissibile. Inutile allo stesso modo del mio rituale di chiudermi al cesso per fumare, inutile il dolore di Alfonso, inutili le nuvole che si insinuavano dentro i porticati di Celana, il collegio dove quasi cent'anni prima aveva studiato Giuseppe Roncalli, più noto con l'affettuosa formula di Papa buono. Inutile tutto quanto.

"A cosa serve la bellezza?" chiese infine Alfonso prima che suonasse la campanella che introduceva all'ora successiva, Tomasoni aveva già preparato sul banco il libro mastro dove segnare i profitti e le perdite. A caricare la chiavetta sulla schiena, ecco a cosa serve, non è vero che non serve a niente!

Ma le risposte giuste arrivano sempre in ritardo, quando l'interlocutore è già montato sulla sua Lancia Fulvia, ridisceso i tornanti che portano ai capannoni e alle fabbrichette, le betoniere arancioni trapuntano la provincia lombarda più laboriosa, qui non si sta con le mani in mano ti ripetono, e diventato a sua volta un fantasma.

Sono passati quarantadue anni da allora. È curioso: ricordo ancora il cognome di Tomasoni, non quello del professore. Eppure non mi è rimasto il suo zelo fattivo, ma le note di Debussy. Si mescolano all'odore di piscio in quell'eterno mancare il bersaglio dei maschi, tracce di merda nel bagno dove ci facevamo anche le seghe, le canne rollate con un movimento del polso analogo alle partite a bigliardino, tutto l'illecito passava da lì. La vita insomma che pensavamo fosse fuori dalle alte mura per non lasciare sfuggire i convittori, a differenza delle ragazze che venivano solo per le lezioni mattutine, poi ci lasciavano a contemplare il culo basculante mentre tornavano dalle famiglie a Brivio, Calolzio Corte, Pontida, Cisano e Caprino Bergamasco, dopo cena si accendevano i televisori sintonizzati su PortobelloDrive In sarebbe arrivato il 4 ottobre dello stesso anno.

E invece la vita era già tutta presente e arroventata, la punta della mia Marlboro ne era una replica in scala diminuita, con tutte le altre sigarette condivideva l'unico limite di consumarsi troppo in fretta. Ma quella è una figura del dopo. Per capire l'adesso che avvolge l'esistenza anche quando non si vede, quando sembra tutto perduto, le mani tra i capelli e venticinque zucconi che ti guardano come se fossi un marziano, bastava pigiare il tasto di un registratore dal suono obiettivamente disastroso.

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