lunedì 15 agosto 2011

Brutta fine, o su come andare a ramengo col sorriso sulla bocca


Forse finire male, pensavo questa sera, ferragosto, la ribollita Arnaboldi che borbotta in un pentolino troppo piccolo, forse finire male o fare una brutta fine non è lo stesso che morire, sono cose profondamente diverse. Perché morire, oltre a essere un fatto naturale, prima cucchiata di ribollita in quest'estate già autunnale, morire è anche o soprattutto una tragedia. Ossia un evento intimamente paradossale, un dover essere – morti – che si contrappone a un dover essere altrettanto urgente: vivi, essere ma soprattutto rimanere vivi; almeno in quella parte di noi che non riesce a pensarsi se non come presenza, eternità concentrata in puntino che dice io. Nemmeno il linguaggio, riflesso sedimentale dei processi cognitivi, dispone di strumenti per render conto di questa condizione scissa: esprimere soggettivamente l'inconsistenza del soggetto, indipendentemente dal tempo in cui si voglia coniugare l'evento tragico. Da ciò deriva che anche l'inesistenza anteriore, la vita prima della nostra vita, è impensabile e dunque indicibile, qualcosa di scandaloso. Ma finir male, fare una brutta fine, andare a ramengo o a scatafascio, sono espressioni che rimandano a tutt'altro orizzonte di senso. E in effetti, si finisce male non quando si finisca letteralmente qualcosa – la vita, nella fattispecie – ma per così dire la si pre-finisca, ritrovandosi confinati in un limbo che dell’esistenza individuale falsifichi la premesse ideali, scaturite dal suo fondo sommerso e desiderante. In altre parole, fare una brutta fine corrisponde a smentire il proprio inizio, a tradire l'immagine di sé simbolizzata in una fase precedente. Eppure, in questo diffuso declinare delle attese giovanili, il più delle volte non si consuma una vera tragedia. Anzi è tutto all'opposto della tragedia (che come abbiamo visto nasce da una biforcazione delle istanze vitali), e cioè un processo dialettico di adeguamento alle condizioni esistenti, alla contingenza della vita quand'anche dolorosa o meschina. Mentre vivere in un orizzonte tragico equivale a rifiutarsi, intimamente sottrarsi alla scorciatoia di far necessità virtù, come si usa dire come monito virtuoso. Deve essere questo il motivo per cui attorno a me, tra i miei conoscenti, gli amici e fino al riflesso dello specchio che restituisce il mio profilo dentro una nebbia soffusa, non vedo esistenze realmente tragiche o disperate. Semmai mi ritrovo in un girone di ignavi, ma in fondo conciliati con la vita, se non mai con se stessi. L'immagine potrebbe essere quella di un vecchio carrozzone, affollato degli interpreti di un circo itinerante e sgangherato: ammaestratori di pulci, donne barbute e pagliaccetti che conducono esistenze contraffatte. Ma quando si accendono i riflettori e si ritrova al centro della pista, la combriccola diviene esuberante e festosa, si fan scherzi l'uno con l'altro e perfino le puzzette, incolpando poi quello più magrolino o con l'abito da Pierrot. Sì, tutta gente che va a finire male, malissimo e anzi già ci sono finiti: una mala vita, una vita che non è quella su cui avevano appuntato il loro distintivo scintillante. Eppure hanno, anzi abbiamo un sorriso appena accennato sulla bocca, mentre mangiamo la zuppa Arnaboldi in ampie e ricche cucchiaiate. Un sorriso, sì, un sorrisino come quello del monaco Zen, che muore sognando di vivere nel migliore dei mondi possibili...

2 commenti:

  1. quando domando - come stai?- quasi sempre mi sento rispondere scaramanticamente: -abbastanza bene, grazie-
    Come se rispondere - bene!grazie - portasse jella o dritti verso le peggiori sciagure. Per sentirsi felici, come disperati, occorre coraggio. E di questi tempi,il coraggio, nonché la vergogna, sono rari da trovare. Saranno fuggiti insieme? lorella

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  2. quando mi sento chiedere 'come stai?', a me verrebbe da rispondere 'cerco di andare, non di stare'. ma poi non ho mai voglia di spiegare, se qualcuno dovessere non accontentarsi della prima risposta. allora rispondo 'sto andando'. ingenere è sufficiente ad accontentare l'interlocutore, che spesso domanda senza voler sentire o interessarsi davvero alla risposta.

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