martedì 6 settembre 2011

Melissa Hill, o sul perché non mi rispecchio nei miei simili (anzi, nelle mie "similesse")


Eppure continuano a esserci persone che, potendo, è permesso, è lecito ed è perfino incoraggiato, potendo entrare in una libreria e chiedere l'ultimo libro che so di William Vollmann, o di Gianni Celati o di Patrick Modiano o di Vargas Llosa, ci sono delle persone, le ho viste io, che invece entrano in una libreria e chiedono l'ultimo libro che so di quello là con un drago in copertina, o di quell'altro, lo chiamano "il nuovo clamoroso caso editoriale dalla Svezia", o infine, per non sbagliare, facciamo il solito Camilleri, facciamo Umberto Eco o facciamo una certa Melissa Hill, che scopro adesso c'è questa Melissa Hill e scrive dei libri, pare li venda pure.

E così anche se non entri in libreria e dici buon giorno vorrei Melissa Hill, è il libraio stesso – buon giorno a lei – che ti accoglie prego, venga, non sa cosa leggere: le consiglio l'ultimo Camilleri (grande scrittore, per carità: ma dove è la curiosità, la fantasia?) o guardi qui appena sfornato un Umberto Eco croccante di giornata. Già letto, non c'è problema: che ne dice di un bel drago direttamente per lei dalla Svezia, o non mi dica che non conosce Melissa Hill? E non è vero che si deve diffidare delle persone che non leggono, perché le persone che non leggono, il più delle volte, è semplicemente che hanno altro da fare o da pensare, mica si svegliano alla mattina e dicono oggi NON leggo Le affinità elettive di Goethe, oppure NON leggo il Don Chisciotte di Cervantes, tiè, beccati questa.

Hanno i cazzi loro, intendo, e le mani occupate nelle faccende di tutti i giorni: vuoi dargli torto? Ma se hai il tempo e la voglia di leggere, dico, e poi ti rimpinzi di Melissa Hill... secondo me c'è da farsi delle domande: non su Melissa Hill, ma su uno che legge Melissa Hill invece di Richard Powers, di Milan Kundera, di Alice Munro o ancora meglio di farsi i sacrosanti cazzi propri, impastare le mani dentro alle faccende di tutti i giorni.

Che poi, in genere, non si tratta di uno, ma di una. Sono infatti le donne a leggere di preferenza i libri di Melissa Hill, anzi leggono in generale. Per questo, quando sento quei discorsi sulle donne che sarebbero superiori perché le donne leggono e gli uomini no, a me viene da pensare che le donne – un mucchio di donne almeno, le ho viste sempre io – le donne a furia di specchiarsi nelle parole di Melissa Hill, va a finire che le donne si convincono che quelle parole lì sono le loro, non quelle di Melissa Hilll; che ci sta pure il caso che scriva bene, non è questo il punto.

Il punto, infatti, è ancora lo specchio. E le parole. C'era un famoso psicanalista che, più o meno, semplifico, diceva che noi siamo il riflesso verbale del nostro mondo, e che quello specchio si chiama inconscio. Tanto che l'inconscio delle donne che leggono Melissa Hill, assume, piano piano, la sintassi e le cadenza della scrittura di Melissa Hill. Un po' come succede a Emma Bovary, che è la protagonista di un altro famoso romanzo, per quanto non l'ha scritto Melissa Hill e in copertina non ci sta alcun drago, manca il Killer seriale di bambini e arriva dalla Francia invece che dalla Svezia. Ah, è stato scritto nel 1856 da Gustave Flaubert.

C'è dunque questa Emma che legge dei libri, e poi si mette in testa che la sua vita è come quella dei libri che ha letto: vuole fare cose da libri, una vita da libri o meglio ancora è la sua anima, che poi è lo stesso dell'inconscio ma nell'Ottocento la chiamavano anima, tutto qui, si convince che la sua anima ha la faccia dei suoi libri. Solo che questo libro qui, e anche quelli che leggeva la moglie di Carlo Bovary, uno che invece non leggeva e infatti si limitava a farsi i cazzi propri e badare alle sue faccende, questo e gli altri sono libri scritti appunto in quell'epoca, e cioè un secolo dove fare una vita da libri voleva dire avere grandi ideali e passioni, portoni brumosi in cui appartarsi a fornicare.

Ma anche qui, fornicare, è un po' lo stesso di scopare, naturalmente. Solo che nell'Ottocento sembrava più elegante chiamarlo fornicare, gente che al posto delle felpe Adidas indossava il panciotto, e anche i pantaloni non si portavano con il cavallo basso e l'elastico del tanga che fa capolino nella piega del sedere, e come alternativa alle canne ci si stordiva con l'assenzio. Insomma, nella forma è cambiato tanto, nella sostanza pochino: libri e anima erano già la stessa cosa, ben prima che quel famoso psicanalista lo scrivesse dentro ad altri libri, che hanno contribuito a dare nuovo smalto alla nostra vecchia anima.

E se ancora tutto questo non bastava – non bastava alla tua anima –, se non era sufficiente leggere libri e poi comportarti alla stessa maniera dei personaggi, a quel tempo, per quanto in extremis, potevi sempre ritrovare qualcosa come un principio di realtà. Accorgendoti, ad esempio, di quanto fosse fasulla la tua vita, di quanto spettacolo ci fosse dentro, di quanto Altro e di quanto poco Tu. E alla fine non rimaneva allora che levarti dalla rappresentazione con un estremo gesto d'emulazione teatrale, scolandoti un'intera boccetta di veleno per i ratti.

Ma fare una vita da libri di Melissa Hill, io mi chiedo, che vita è una vita da Melissa Hill, e in che modo ci si può svegliare? E me lo chiedo "tecnicamente", non da sborone intellettuale. E cioè che anima viene fuori dalle pagine di Melissa Hill, che anima è quella che assume il corpo e l'espressione dalle donne che incrocio in libreria – sempre eleganti, cortesi, niente da dire –, che anima è l'anima che parcheggia una carrozzina all'ingresso e poi traguarda orgogliosa il suo contenuto soavemente addormentato? Ma sopratutto cosa me ne faccio, da cittadino italiano, di tutte queste anime in cui non mi riconosco, parlano la lingua di libri che sono letteralmente altri libri: un'anima divisa in due, in dieci, in mille idiomi incomunicanti, ecco cosa è diventato questo paese...

Un attimo dopo squilla il cellulare: è il marito: ciao amore: il marito che vuole sincerarsi che abbiano acquistato un paio d'etti di prosciutto cotto – che ti credevi, che era l'amante? Quello succedeva un secolo e mezzo fa, non la carrozzina ma la carrozza, i portoni brumosi in cui scopare, cioè, pardon, fornicare, scrutati solamente dal sottile taglio della luna, e dai ratti che hanno scampato il veleno per un soffio.

E così, poco più tardi, queste donne escono soddisfatte e sorridenti dalla libreria, con il prosciutto cotto in una mano e dentro l'altra l'ultimo successo di Melissa Hill. Si avviano quindi senza tanti cazzi per la testa, seguendo, sul marciapiede, tutte le virgole e i punti che Melissa ha disposto al posto giusto, al posto loro. E anche io me ne esco subito dopo, con infiniti dubbi di punteggiatura: abbandonare il sentimento del proprio Paese, mi dico, non significherà forse smarrire una visione narrativa d'insieme, essere incapaci di realizzarne l'idea in parole?

Ciò che rimane di un'esperienza civile che giudico ormai definitivamente fallita, ricapitolando, io lo ricavo dunque dalle manifestazioni linguistiche diffuse, che hanno nei libri e nello spettacolo i propri modelli di riferimento, minimi mattoni con cui si costruiscono piccole o grandi anime. Il fatto che non ci siano solo alcuni libri, come nei regimi totalitari, ma molti libri tra cui quelli di Melissa Hill, è naturalmente un vantaggio, intendiamoci: un segno certo di liberà. E anche gli spettacoli sono differenziati, specie dopo l'affermarsi di Internet. Ma questo"eccesso" di libertà narrativa mi sembra che abbia contribuito alla frammentazione del tessuto sociale, e cioè ancora del linguaggio con cui un Popolo si parla e riconosce, insomma la sua koiné, senza la quale un Paese non può più dirsi tale. Tanto che una libreria mi sembra allora la metafora più perfetta della morte civile che i più sensibili, o forse i più fragili di noi, sperimentano già da qualche anno.

Ma che cosa ci rimane, allora?

Rimane il disprezzo, per parte mia. Sì, io affermo – e lo scrivo pure – che disprezzare i propri simili (e LE proprie simili, soprattutto), sia l'unico sentimento civile adeguato a questo tempo, e cioè uno dei pochi atteggiamenti in cui ancora si dia il principio dolente di una relazione, prima del definitivo concedo in anomia distruttiva. Disprezzare, sì. Io vi disprezzo, non vi odio ma vi disprezzo, con i vostri libretti da due soldi, il vostro prosciutto tagliato fine, il vostro linguaggio dopato di inglese e smagrito di significato, di realtà e infine di identità.

Eppure il vuoto, il niente e il nulla, sono le fragili fondamenta sopra cui viene edificata la menzogna del soggetto. Diventare qualcosa serve dunque per comprendere – ma solamente alla fine, al termine della costruzione della propria torre – che siamo al fondo rimasti quel niente, un gorgoglio afasico prima di ogni altra parola. Diventare qualcosa per restituire quella cosa da nulla al Nulla, ecco. Farsi per disfarsi. Ma se questo tempo babelico, attraverso la confusione funesta dei suoi linguaggi, che prelude al crollo, potrebbe favorire proprio tale consapevolezza, nell'esperienza quotidiana è sempre più raro assistere alla più estrema e terribile delle agnizioni, quella della signora Bovary: ma allora è tutto finto, ho vissuto la vita di qualcun altro...

Resta per fortuna la nobile figura del disprezzo, e un unico problemino ancora da risolvere: la carrozzina, chi se la prende, adesso che lei se ne è andata con il prosciutto e l'ultimo best seller di Melissa Hill, chi se la prende la carrozzina con il pupo?

1 commento:

  1. Quante donne sono rimaste fedeli ad "Intimità"?
    Melissa Hill fa più figa.
    Personalmente preferisco il disprezzo cosmicamente ironico di Rabelais.
    Non volevo arrivare a rimpiangere Guareschi e Fortebraccio , ma ne avrei ben donde.
    Ben detto tutto, Guido, ma anche i maschi non sono immuni
    Dom Milazzo

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