domenica 14 marzo 2021

Si muore un po' per poter vivere

 


Baricco ha scritto un bell'articolo su la Repubblica del 9 marzo. Si fa sempre un torto a riassumere gli articoli di Baricco: oltre a raccontarci delle cose ci racconta del suo saperle raccontare bene; che è diverso dal raccontarle bene e basta, bisogna accorgersi di come le parole vengono scelte e concatenate, e poi pensare: capperi, ma come scrive bene Baricco!

Qualità che gli riconosco di buon grado. Sono proprio le cose che dice e non la sua capacità di narratore, a lasciarmi perplesso. Ad esempio il fatto che, “per timore di morire, abbiamo rinunciato a vivere”.

In parte è vero naturalmente, ma la frase andrebbe completata: per timore di morire ma soprattutto di causare la morte (contagiando gli altri, magari un anziano familiare) abbiamo rinunciato a fare ciò che facevamo prima, e che solo per convenzione Baricco fa coincidere con la vita.

Il primo si chiama principio del piacere e il secondo principio di responsabilità, di cui ci parla Max Weber distinguendolo dallo slancio volontaristico al bene, da lui denominato etica dell’intenzione. Stiamo dalla parti di Sant Agostino, per intenderci.

Andrebbe quindi aggiunto che l'equivalenza tra morte (da Covid) e non vita (per prevenire il Covid) possiede qualcosa di forzoso. Dalla prima si può infatti resuscitare solo con un atto di fede, mentre dalla seconda con uno dei tanti vaccini ormai approvati, bisogna solo pazientare un altro po'.

Ma ciò che nelle parole di Baricco ha davvero smosso i miei pensieri – e qui parlo veramente solo a titolo personale – è l'idea che prima vivessimo davvero, mentre ora non lo facciamo più.

Per convincerci cita degli esempi, ne riporto alcuni: dividere il pane; abbracciarsi; incontrare gli artisti capaci di generare emozione e bellezza; ascoltare musica raffinatissima; andare lontano; urlare; insegnare girando tra i banchi; limonare con qualcuno per la prima volta; andare dai nonni; suonare uno strumento per un pubblico; ballare; fare una valigia; sposarsi; giocare a bowling; scambiarsi il segno di pace a Messa; tenere la mano a qualcuno che muore.

Non so voi, ma io non faccio più nessuna di queste cose da anni, e alcune non le ho fatte mai. Non era insomma, la mia vita, costituita da quei gesti che Baricco fa coincidere con la vita stessa – ne sono per lui il correlativo universale –, ma di altri che lui omette non so se per distrazione o perché neppure li concepisce, non concependo esistenze in cui la colonna sonora sia composta da musica meno che raffinatissima.

Gesti come allungare la mano verso le olivette dell’happy hour; fare il pieno di gpl in un piazzale sterrato dove gironzola un vecchio cane semi cieco; chiedere al cassiere della banca a cosa si riferisce quella voce non prevista tra i passivi, e a una ragazza ucraina seminuda che batte i denti nel gelo notturno della statale dei Giovi (finestrino che si abbassa lentamente) quanto vuole per quella cosa lì, no non quell’altra più faticosa, quella per cui deve fare tutto lei, a te basta slacciare la fibbia della cintura che ti ha regalato la moglie per Natale.

O ancora: ritirare i pacchi Amazon da corrieri sempre più trafelati; fermarsi di fronte alle vetrine delle agenzie immobiliari e scorrere gli annunci di case “imperdibili” – lago di Como, villa prestigiosa con torretta e posto barca! – che non avrai mai i soldi per acquistare; guardare vecchi incontri di pugilato su YouTube e le sborrate sulle tette su YouPorn; sfregare con una moneta le caselle dorate del Gratta e Vinci; consultare l’urologo; andare in un centro commerciale con la famiglia il sabato pomeriggio, confondendosi con migliaia di altre famiglie che sfilano in silenzio, un cono di gelato in mano da cui cola verde il pistacchio, cola sulle dita e poi raggiunge il polsino della camicia; lavare l’auto il giorno successivo in giardino, mi raccomando (dici a tuo figlio) anche i cerchioni in lega leggera.

Perché è vita anche questa, Baricco, e non solo musica raffinatissima, artisti capaci di suscitare emozione e bellezza, o limonare una donna, un uomo, un cavolo di qualcuno purché sia la prima volta.

E così questo lungo anno in cui non ho vissuto per non morire, acquista, almeno per me e per chi mi rassomiglia, anche un valore diverso. Potremmo dirla una sorta di ricapitolazione, consentita da quella distanza dalle cose che affina e focalizza lo sguardo, e da cui infine si può vedere, vedersi ed eventualmente cambiare.

In fondo, quando gli alchimisti rinascimentali parlavano della fase della nigredo, in cui il vecchio mondo si consuma nelle tenebre per lasciare spazio all’oro successivo, esprimevano, con un linguaggio evocativo e allegorico, un concetto molto simile al ben più volgare termine di lockdown. Ma anche i quaranta giorni in cui Gesù si ritira nel deserto con la sola compagnia delle più infide tentazioni (ad esempio quella di uscire di casa per andare a fare jogging senza mascherina), furono il suo personale lockdown.

Eh sì, di questo tempo di clausura ne avevo proprio bisogno, e me lo ricorderò con gratitudine. Come in quella canzone di Caterina Caselli, dove, da principio, si vedono le nuvole lassù, ma sempre più lontane, fino a lasciare spazio a torrenti di acqua chiara e vallate col sole. Perché si deve morire, almeno un poco e senza lagnarsi troppo come fa Baricco. Si muore un po’ per poter vivere.

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