giovedì 18 marzo 2021

Pugni, scacchi, pianoforti. E un vitello che si è smarrito nella nebbia

 


"Il gioco degli scacchi è lo sport più violento che esista." Da quando ho letto questa frase attribuita a Garri Kimovič Kasparov, ho cominciato a prestare attenzione a un particolare: al termine, ma anche all'inizio, di una partita di scacchi, i giocatori si salutano freddamente, una stretta di mano e via, senza neppure guardarsi negli occhi.

Il contrario di quanto accade negli incontri di pugilato – secondo Kasparov sono entrambi degli sport –, dove all'inizio gli atleti si fissano in cagnesco, ma in seguito è tutto un fiorire di abbracci e pacche sulle spalle, specie da parte del vincitore nei confronti del perdente. Il gesto fisico del contendere ha consumato e risolto ogni violenza, come le ceneri dopo un incendio. Quella degli scacchi è invece una brace sempre pronta a riaccendersi.

Con un salto analogico disinvolto, dal fuoco sono risalito al legno, magari di un lungo pianoforte a coda. In basso si trovano tre pedali: a me ora interessa solamente il centrale, anche detto pedale tonale. Premendolo con il piede, il suono prodotto dal martelletto nel colpire la corda tesa dentro la cassa d'abete, dopo aver pigiato il tasto corrispondente sulla tastiera, viene prolungato per un tempo indefinito. Mettiamo fosse un do di seconda ottava minore, diventa dooooooooo…

Ma cosa c'entra tutto ciò – pianoforti, scacchi, pugni e incendi – con la vita, ossia quel che un filosofo continentale chiamerebbe contenuto di verità, da non confondere con la verità astratta dei matematici, per cui due più due fa sempre quattro? Piuttosto quei pensieri che hanno importanza per me, per te, per un soggetto situato nel mondo, di cui compongono il riflesso esterno come chi si specchi dentro un lago. E la risposta del lago può essere anche cinque.

La risposta che invece mi sono dato io è che il mio stare e scrivere qui, su internet e in particolare sui social network, è molto più simile a una partita a scacchi che non a un incontro di pugilato, coagulando in violenza rattenuta ma anche amore inespresso. Tutta colpa del pedale tonale, insomma. A rendere la nota affettiva infinita per quanto il significato transitorio, labile, superato a breve giro dalla mossa successiva: si legge, si scrive, ci si incazza o commuove o ridacchia e poi si passa al post successivo, senza soluzione melodica e scacco matto a sancire un finale ogni volta rimandato.

Peccato che io conosca a malapena le note musicali e i movimenti degli scacchi (con il cavallo, a volte, faccio ancora confusione), mentre mi appassiona il pugilato e tutti gli sport dove ci si mena per davvero; la stessa foga di quei ritorni da scuola in cui si posavano le cartelle a lato del marciapiede, e via anche maglione e camicia per non sgualcirli e buscarsi una ramanzina dalla mamma.

Ma poi, dopo la scazzottata immaginaria, penso a quanto sarebbe bello abbracciare, stringere forte, sbaciucchiarmele tutte, quelle rare persone con cui ho scoperto un'imprevista e tenera affinità. Sì, succede anche su Facebook. Dove (continuo a sognare) pigliare piuttosto a calci in culo – e ben inteso calcioni veri, assestati con precisione – la quantità di rompicoglioni, hater, nemici di parola per un minuto, e da lì poi per sempre con il tasto del pianoforte che si incastra, e il do muggisce all'infinito come un vitello che ha smarrito il suo branco nella nebbia.

Nessun commento:

Posta un commento