mercoledì 24 marzo 2021

Fly down


Uno gareggiava in bicicletta, era anche bravo, quello che si dice un passista veloce, aveva vinto sei tappe del Giro d’Italia e un Giro delle Fiandre, al termine del quale intonò O sole mio per ringraziare le centinaia di italiani presenti alla corsa, che avevano preso pioggia e vento pur di tifare per lui. Era il 1967.

Aveva però un punto debole: le donne. Quando ne intravedeva una giovane e carina sul ciglio della strada, si alzava sui pedali e, curvando il busto in avanti per essere più aerodinamico (ma alcuni insinuavano fosse unicamente per lasciar svettare il sedere), lanciava un piccolo sprint, così solo per far colpo.

I dirigenti della scuderia non condividevano queste sue esibizioni, temendo che alla lunga potessero compromettere la resa agonistica, e arrivasse al traguardo spompato. Dall'automobile dell’assistenza, quella che viene chiamata ammiraglia ed è generalmente una giardinetta, all'interno tutto un trambusto di pneumatici e pozioni miracolose e teste protese dal finestrino, ogni volta che si profilava all’orizzonte una bella ragazza gli urlavano allora: “’Ta bon Zandegù, 'ta bon!”, nello stesso dialetto veneto con cui lui si esprimeva.

Un’esortazione ripetuta talmente tante volte – tante quante il suo ardore erotico, che poco vi badava – da renderla nota anche fuori dalla piccola cerchia degli addetti ai lavori, ed estendersi col tempo ad altre situazioni, persone, luoghi. Bastava che uno si infervorasse un po', e, prima o dopo, si alzava una voce: “’Ta bon Zandegù, ‘ta bon!”

Poi Dino Zandegù, nato a Rubano il 31 maggio 1940 e ancora vivente, smise di correre, e ci si dimenticò anche di quella contagiosa espressione. Così se adesso uno va un po’ su di giri gli si dice fly down.

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