Amore nei ricordi è probabilmente stata
la prima canzone che io abbia imparato a memoria. Sì, certo, c’era già stata la
sigla di Due ragazzi incorreggibili
con Franco e Ciccio, interpretata da Daniela Goggi nel ruolo di Fata Fatuzza.
Iniziava così: “a Zigo-Zago c'era un mago con la faccia blu, \ sul grande lago
navigava con la sua tribù…” Ma ne conoscevo solo le prime strofe e il
ritornello, mentre, con il brano de La bottega dell'arte, ci fu uno studio
sistematico e puntiglioso, eseguito insieme a mia cugina Alessandra sul sedile
posteriore della Fiat 125 dello zio, con cui stavamo andando all’Alpe di Siusi
per una settimana bianca.
Una cosa un po’ da ricchi, sciare sulle Dolomiti, da rampolli di avvocati e
commercialisti, ma fu concessa anche a me che ricco non ero – genitori
insegnanti elementari, borghesia piccola piccola – seguendo la risacca sempre
più esausta del boom economico, di cui sopravviva l'eco in provincia. Bastava posare l'orecchio sopra una conchiglia: per i figli un futuro diverso e
migliore, sussurrava la conchiglia, la freccia delle magnifiche sorti e
progressive deve puntare verso il cielo. Era l’inverno del 1977.
Abbiamo così due ragazzini di dieci anni (in realtà c’era anche mio cugino Paolo, ma lui già strimpellava gli Intillimani sulla sua chitarra), due soldatini del presente che cercano d'intonare la voce a ciò che pensano li attenda, benevolo, nel loro viaggio dentro la vita, di cui quello partito da Sondrio rappresentava a un tempo una ricapitolazione e un collaudo. E così all'arrivo a Siusi l'obiettivo è finalmente raggiunto: nessuna parola, nessuna nota di Amore nei ricordi era andata perduta, stavano tutte nelle loro teste piene di capelli dove si trovano ancora. Le parole, i capelli meno.
Me ne sono accorto oggi ascoltando una stazione radiofonica dove
trasmettono solo musica italiana, erano anni che non risentivo quella vecchia
canzone melodica e strappalacrime, diciamo pure minore; niente a che vedere con
capolavori del genere come Liù, degli
Alunni del sole, o Ti amo di Umberto
Tozzi. Massì, mettiamoci pure Alan Sorrenti e i suoi Figli delle stelle.
Eppure, deve esistere un punto dentro la geometria degli affetti in cui la
bruttezza di versi come “amore amore nei ricordi una bambina resterai \ con le
paure e le incertezze dell’età”, incontra la bellezza degli esordi, l'accadere
ancora intonso come lo strato bianco che avremmo trovato il mattino successivo al risveglio, dopo
una copiosa nevicata. Bastava allungare la mano e decidere se farci un pupazzo
o scagliarla contro nemici immaginari. Butto lì: quel luogo è la memoria, di
più, il rimpianto. Di tutti i pupazzi rimasti neve e i nemici mancati per un
soffio.
Chissà perché, quando qualcuno intende dare un’immagine vincente di sé,
afferma: non ho rimpianti, solo progetti. Io invece ho solamente rimpianti.
Proust c’entra solo fino a un certo punto, lui era un dandy, un cazzo di
esteta: avrebbe storto il naso alla merda che canticchiavo sul divanetto in
ecopelle di una berlina nazionalpopolare con il bombolone del gpl, e ai Buondì
Motta con cui sono cresciuto al posto delle sue squisite e fragranti madeleine.
Per non parlare del
Ma quei modesti rimpianti accompagnati da una colonna sonora ancor più
modesta, sono anche un segreto progetto di bellezza – l'impossibile, opplà,
torna possibile per quanto spiazzante nel suo essere molteplice, la pozzanghera
neve – a cui posso accedere tutte le volte che voglio. Basta che schiarisco la
voce e poi resuscito i versi finali della canzone, la brutta canzone di un
gruppo romano di pop melodico sconfitto dai sintetizzatori dell'italo disco
degli anni ottanta: “il tempo se n’è andato, e adesso dentro me, \ rimangono i
ricordi più belli che ho di te…” E quel te naturalmente sono io, sei tu, è
chiunque.
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