giovedì 4 marzo 2010

Alla Bovisa, o sul perché non mi fido degli architetti


Il lavoro che faccio non è tanto semplice il lavoro che faccio io. Così quando qualcuno me lo chiede, "che lavoro fai", di solito rispondo "alla Bovisa", che è un quartiere di Milano, zona nord, da viale Jenner si gira a destra per via degli Imbriani fino a piazzale Bausan, ma ci si può arrivare anche per altre strade, non è importante come ci arrivi, alla Bovisa, perché poi non ci sta quasi più niente, a parte il Politecnico, la nuova Triennale, due Todo Modo che sono bar dove fanno buona la cioccolata e da qualche anno un Libraccio, sono già diventato amico delle commesse, ma forse loro preferirebbero essere chiamate libraie, ci vediamo di frequente, perché da tre mesi, quasi quattro, alla Bovisa ci abito anche io. Ecco, se dico tutte queste cose assieme di solito alla fine uno se l'è già dimenticato, che mi aveva chiesto solo che lavoro fai? E allora io dico tutte queste cose, di solito, assieme, che non è mica semplice il lavoro che faccio io. E poi sono domande che si fanno tanto per fare, per tenere sveglia la comunicazione. Il lavoro ad esempio, non è che interessa davvero il lavoro, come la salute, come stai, bene grazie, non è tanto importante. Se tra la domanda e la risposta ci infili un mucchio di virgole, c'è allora il caso che uno se le confonde, che lavoro, come stai, vino bianco o vino o rosso, sono tanti drin drin, dove abiti anche, alla Bovisa, ah, ecco, bravo, e si continua a parlare. Della Bovisa, ad esempio. Che si chiama così perché una volta ci stavano i buoi, i prati, una grande cascina, la gente si infilava sotto il ventre gonfio delle vacche e le alternative erano due: a pollice o a pugno, la mungitura. E mica tanto tempo fa, eh. Poi, con un secolo e mezzo buono di ritardo, è arrivata la rivoluzione industriale anche in Lombardia. Dopoguerra, piano Marshall, boom economico e film con Tognazzi e Gassman. In altre parole, fine dei buoi e inizio delle ciminiere. Più che altro, alla Bovisa, si è però trattato di modesti opifici, le cosiddette "fabbrichette"; un po' di chimica, soprattutto vernici, artigiani che si ingrandiscono; oltre alla Branca, quella del Fernet, e all'azienda di produzione e stoccaggio del gas di città, che ha caratterizzato lo skyline del quartiere attraverso lo scheletro dei gazometri. Niente di mastodontico, comunque. Piccola e piccolissima impresa industriale che, priva di sovvenzioni pubbliche, è stata la prima a subire la crisi di settore, e a chiudere all'inizio degli anni ottanta. A quel punto sono arrivati gli architetti del Politecnico, si sono piazzati tra le macerie del boom, come un'autostoppista svedese con lo zaino, e hanno iniziato a usare una parola che quando la sento dico boh, riqualificazione, cerchiamo di capire. Così a orecchio, riqualificazione credo voglia dire una qualità diversa, non fare ma ri-fare. Come quando c'erano i buoi e poi è arrivato all'improvviso sulle nostre tavole il Fernet Branca. Non una nuova cascina sopra allo sterco della storia, ma qualcos'altro, diverso, che prenda lo sterco ma per impastarlo con la paglia, costruire nuovi mattoni, non so se mi spiego. Perché se vengono servite le portate del banchetto troppo svelte, il problema non è più quello di mungere, ingollare grandi cucchiaiate di latte con i corn flakes, ma diventa digerire, caffè e ammazza caffè, ruttino. Ecco, la stessa cosa. Riqualificare è allora come ammettere che qui è cambiato tutto, facciamo di nuovo ma con un'idea diversa di mondo, utilizzando i pezzi di lego che già possediamo. Ma qual è allora la diversa qualità pensata dagli architetti della Bovisa? Io li incontro, ogni tanto. Vengono a mangiare alla Montagnetta, oppure alla trattoria Speranza, al Toscano, dal Monello che è dove si spende meno: 5 euro e 50 se prendi solo primo, contorno e bevanda; 7 e 50 con anche il secondo. Io li incontro lì, li vedo lì. Capisco che sono architetti e non ingegneri - perché alla Bovisa ci sta anche Ingegneria, ma dall'altra parte dei binari della ferrovia, verso Mac-Mahon, altra storia insomma - capisco che sono architetti da come sono vestiti. E non è che in genere ami sciacquarmi nella pozza tiepida dei luoghi comuni, ma sembra che quelli lo facciano apposta, a vestirsi da architetti. Jeans o pantaloni di velluto a coste, lupetto antracite, occhiali da vista con la montatura in celluloide, pesante, nera, sciarponi annodati a cappio, polacchine Camper, giacche con le toppe scamosciate, sempre di velluto le giacche, ma in inverno giubbotti tipo marina e d'estate non lo so, perché l'università è chiusa. E poi naturalmente l'orologio Mondaine, quello delle ferrovie Svizzere. Ma anche i capelli li distinguono dagli ingegneri. Gli architetti hanno un mucchio di capelli, gli ingegneri sono già mezzo pelati a vent'anni; e sembra che lo facciano apposta anche loro, a richiamare l'alopecia come si fa con un gattino con una tazza di latte in mano. Ecco, questi sono i futuri architetti che daranno forma, anzi: ri-formeranno le nostre città. Così io cerco di capire quale sarà questa forma, questa nuova qualità della Bovisa senza più buoi ma nemmeno ruttini, la cerco di scoprire attraverso gli unici strumenti critici di cui dispongo: lo sguardo, l'udito. Ma prima di iniziare a sbirciare, a origliare, mi faccio una domanda sola, semplice, mica c'è troppo da sottilizzare quando punti il tuo cannocchiale a tre tavoli di distanza. E la domanda sarebbe: cosa sa fare un architetto che io non sappia fare? Un ingegnere, ad esempio, è capace far rimanere dritta una parete di cento metri d'acqua. Cavolo, io non lo so mica fare quel trucco lì: una diga. Oppure un computer, uno stereo, un aeroplano, un motore turbo diesel, una nave, un'ovovia, un meccanismo che fa risalire i birilli del bowling dopo che hai fatto strike, con il piedino incrociato come i pattinatori sul ghiaccio azzurrino della pista. E sono equazioni matematiche, fisica dei flussi, complessi studi sulla portanza. Un poco più in piccolo, anche un geometra deve conoscere quei delicati equilibri meccanici tra le forme, le sostanze e il loro comporsi dentro la materia. Ma un architetto? Sì, certo, anche un architetto deve essere in grado di maneggiare i calcoli e le strutture, ma in questo caso sta semplicemente copiando dal banco di un geometra, o al suo meglio di un ingegnere. E' un'altra, intendo, la tazza in cui un architetto dovrebbe versare il suo tè; o come la chiamerebbero loro: la qualifica professionale o specifica competenza. E secondo me questa cosa che un architetto dovrebbe saper fare meglio di un geometra, ma anche di un ingegnere e soprattutto di me, è riconoscere e poi creare delle relazioni stabili tra le cose. Se un ingegnere progetta un ponte tra le due sponde opposte di un fiume, un architetto dovrebbe allora essere in grado di proiettare quello stesso ponte tra un lampadario e una finestra, una strada e un lampione, una panchina e il nonno che ci si siede sopra con il nipote, le badanti ucraine la panchina dopo, il tossico che beve a canna una Dreher un'altra panchina ancora. Tutti puntini di mondo, schegge, che andrebbero ricomposte in un quadro complessivo. E per questo ci vuole un architetto, uno bravo, che sappia restituire all'esperienza le trame segrete tra le cose, quali il mondo sta perdendo. Ascolto dunque i discorsi dei futuri architetti che mi accerchiano, nella pausa pranzo dei loro studi, dentro gli infiniti ristorantini della Bovisa. Ma più che altro controllo le loro ordinazioni. Per secondo abbiamo seppioline con piselli oppure spezzatino, vanno bene le seppioline, d'accordo, aggiungo anche due patate, come preferisce, e da bere la solita lattina di Fanta ...? La solita lattina di Fanta!? Ma stiamo scherzando, seppioline con piselli annaffiate di Fanta, la solita Fanta! E sì che questi ragazzi, con i loro pantaloni di velluto, gli occhiali dalla montatura pesante, le toppe sulla giacca, sono proprio gli uomini e le donne che dovranno restituire forma ed esatta misura alle cose che tocchiamo, spalancare ponti tra le manifestazioni sensibili, ponendo in relazione il simile col diverso, ma secondo un ordine umano di bellezza e funzionalità, armonia. Ma poi, al momento di impilare i materiali con cui costruire la cattedrale del proprio stomaco, dischiudono una folle campata tra seppioline con i piselli e Fanta. E non sto parlando di uno, di un caso isolato, sono tutti così. Coca-Cola con bollito misto, pizza guarnita di patatine fritte, Sprite e agnolotti pavesi. E per finire, invece di un bel bicchierino di Fernet, una tazza di cioccolata calda, ché da Todo Modo la fanno buona. Ed ed è vero, la cioccolata di Todo Modo è davvero la più buona, il mondo va avanti, la gente parla, ti chiede come stai come non stai, qual è il tuo lavoro. E io che non è tanto semplice, il lavoro che faccio io, rispondo alla Bovisa, dove ci sta pure la facoltà di Architettura. Hai presente, Architettura?

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