domenica 28 marzo 2010

Come è profondo il mare, o sul falso diritto alla comprensione


Da quando tengo questo blog, già più di una persona mi ha rimproverato perché non capisce immediatamente ciò che scrivo; insomma, perché non "parlo come mangio". Ora, a parte il fatto che come non si capisce quel che scrivo, probabilmente non si capirebbe nemmeno quel che mangio, credo che la questione sia semplificabile con un esempio. Anzi, con due immagini.

La prima è quella del Circo Americano, avete presente? Le bandierine a stelle e strisce, la foto con il leoncino in mano, i trapezisti, le tigri e gli elefanti con i miseri ornamenti di paillettes, tristi come Dumbo... Ma anche la biglietteria all'ingresso, il direttore con la tuba e la cassiera con le sopracciglia disegnate. Bene, come l'avete visualizzata adesso scordatevela pure, perché qui non si paga nessun biglietto. E pertanto non si dà nemmeno il mesto rituale del rimborso. Ad esempio quando gli elefanti si pigliano il raffreddore e la contorsionista ha il mal di schiena: una lunga coda all'uscita, ridateci i nostri soldi, vergogna!

Ma ancora più importante, seconda immagine, vi siete mai chiesti come mai quando ci facciamo un esame del sangue poi andiamo da un medico per farci leggere il responso; bussando alla porta di vetro del suo studio con l'estrema periferia delle nocche, una sincera tremarella nelle gambe. In fondo anche un referto medico è un testo, un racconto che parla di noi. Eppure, anche se parla di noi, ma davvero in quel caso di tutti noi, non è scritto per noi. Viceversa da un medico e per essere inteso da un altro medico.

In narratologia, che è la branca del sapere che si occupa delle forme manifeste e implicite (strutture) del racconto, questo particolare paradosso viene chiamato lettore implicito. Come a dire che qualcosa può parlare di noi, sì, certo, ma essere scritto per altri. E questi altri sono appunto i lettori impliciti di quella bustarella stropicciata che accidenti conteneva così tanto di me, cacchio, speriamo di non avere il colesterolo alto.

Ma pazienza, rassegnamoci: funziona così. O ci prendiamo una bella laurea in medicina - cinque anni più quattro di specializzazione - o ci adattiamo a depositare il culo per qualche mezzora dentro una sala d'attesa piena di germi e copie sfrante di riviste femminili; le due cose spesso coincido, tra parentesi.

Tra un testo, qualsiasi testo, e un lettore, è a volte necessaria la mediazione di un interprete. Che può darsi nella figura di un divulgatore, di un critico o anche solo di un amico, con cui discuterne i passaggi più complessi. Può essere sufficiente un volume dello Zanichelli su cui cercare le parole meno frequenti; ma è anche quella una forma di intercessione rispetto all'immediata ricezione di un testo. Perché non sempre la parola può offrirsi come un tacchino disossato: più spesso è pesce, ci stanno le lische da rimuovere con cura e pazienza certosina.

E se poi non si ha voglia o tempo per ripulire il nostro pescetto - ci sono delle ottime ragioni per non farlo, viviamo in un tempo in cui hanno inventato il tonno in scatola - rassegnamoci al fatto di non essere i lettori impliciti di quel che abbiamo iniziato a sfogliare, molliamolo, ne abbiamo pieno diritto. Io, ad esempio, da qualche anno mi sono rassegnato a non essere il lettore implicito di Celan o Heidegger o Edoardo Sanguineti. Con tutta la buona volontà, non li capisco.

Fortuna che la rete è grande, le acque pescose. E il mare è profondo ma come è profondo il mar...

1 commento:

  1. Hai ragione; ma quando scrivo credo di avere il compito di rendermi comprensibile.
    Questo lo stesso non significa che capiranno tutti, per molte ragioni.
    Ma secondo me l'ermetismo programmatico è una stronzata; anzi: a volte è un tentativo di vincere la gara basica del «sono meglio di te che non capisci quel che scrivo».

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