venerdì 26 marzo 2010

Velleità, ou comment n'est pas assez le moustache



Morgan da Santoro. Chi ha visto ha visto, a chi non a visto cosa si potrebbe dire? Forse solo una parola: velleità.

La confusione mentale e la blatera rauca del suo intervento, morbidamente srotolate come in una vecchia pubblicità della carta igienica, con un cucciolo di labrador che trotterellava stringendone un lembo tra le fauci, il rotolo che si svolge è il filo rilasciato da Teseo in un labirinto di piastrelle e divani ben imbottiti, tutto ciò è in fondo solo un epifenomeno. Al nocciolo c'è la velleità innalzata dalla macchina spettacolare, che ha intuito come la spudorata ostensione del proprio nucleo discreto, la cosiddetta sensibilità, unita a una falsa idea di singolarità umana data dalla misura smisurata dell'eccentrico, ovvero una bizzarria vezzosa e compiaciuta, funzionano da modello sociale tanto più potente proprio perché replicabile. Morgan, probabilmente suo malgrado, è diventato araldo di tutto ciò: la superbia dell'intenzione, perlopiù inconcludente e fragile.

Per questa buonafede che mi viene spontaneo accordagli, ho provato una grande tristezza per i fischi e i vaffanculo con cui il pubblico di Bologna si è accanito su di lui, magnifico agnello sacrificale in cui sprofondare la lama del conformismo virtuoso che alita in ogni piazza. Era anche partito benino con l'immagine delle due italie. L'una con i baffoni spioventi che lo rendevano incredibilmente simile a un ritratto di Flaubert, e che stava a rappresentare il paese travestito e falsificato dai media, il regno di Berlusconia: un paese perduto. Ma immediatamente dopo, antifrasi fulminante, senza più quella peluria posticcia che si è levata con un gesto secco e teatrale della mano, ebbro di un'idea infantile e kitsch di bellezza avita, la penisola accarezzata dal mare e dal sole diventa sintesi e totem di una squisita dolcezza. L'altra Italia. Che inclina pericolosamente, torre pendente di ogni meraviglia, verso una canzone di Dean Martin, sussurrata di fronte a un piatto di spaghetti all'amatriciana e un fiasco impagliato di Chianti.

E' a quel punto, su invito di un sempre più imbarazzato Santoro, che li ha raggiunti Antonello Venditti, il quale ha subito stroncato le prolisse velleità di Morgan con un paternalismo indispettito. Ammiccamento romanesco, tono severo e saccente da vecchio maestro di un tempo. Come quello che arringa la classe in cui Charles Bovary, ancora studente, entra al seguito del rettore e di un bidello che trascina un banco: quelli che dormivano si svegliarono, ci tirammo su tutti, con l'aria di esser stati sorpresi nel fervore dell'attività. Quando si dice una montagna che partorisce un topino, mentre compare sulla scena del romanzo un ragazzo allampanato in una giacchetta troppo stretta, che ne scopre i polsi arrossati per l'abitudine a stare scoperti; i capelli tagliati netti a frangia sulla fronte come un chierico di paese, l'espressione mite e piuttosto impacciata.

Tutto il contrario della velleità, insomma. Alle due, quando suonò la campanella, il prefetto dovette dirglielo, di mettersi in fila con noi.

Ma torniamo a Morgan, e a Venditti sempre più insofferente e calato nei panni di un maestrino che lo bacchetta sul dorso delle mani. Eppure, forse, la diffusa velleità di questo tempo nasce proprio dalla caduta della categoria della magistralità, che faceva da scrigno spigoloso a una goffa timidezza. Io sono io, sono unico, sono sensibile e strano, perché non ho più maestri a cui sottoporre il mio compitino, cattedre a cui arrampicarmi per superarle nello slancio. E così finisco col cercare dentro di me alla ricerca di un'originalità che non ha origine, solo l'infinita circolarità del consenso che si fa esca di se stesso, prima di essere nuovamente acciuffato dalla rete che lo issa all'evidenza pubblica, come il calamaro gigante che si arena sfinito sui lidi ostiensi, al termine della Dolce Vita di Fellini.

O come la donna che anni dopo sposerà il ragazzetto allampanato e con una giacchetta troppo stretta, nel frattempo divenuto medico condotto di un piccolo paese di campagna. Sì, lei, Emma Bovary, già nel tardo ottocento un preveggente emblema dei tempi nuovi. Un animo fradicio di psiche, sensibile al parossismo, che insegue dentro la crocchia scura dei suoi capelli il sogno avventuroso dell'autenticità, ma trova solo il riflesso sbiadito e mimetico di un mondo in disfacimento.

E pensare che nel monologo sconclusionato e citazionista di Morgan - un bigino liceale e sontuoso dalla Commedia di Dante - sarebbe magari bastato inserire, a tradimento, un'altra minuscola citazione. Da un vecchio e buon maestro, diciamolo pure senza tema di sembrare dei vecchi tromboni. Alla cui matita rossa, incerti tra sdegno e tenerezza, ci siamo fino a qui aggrappati:

Ci sono in giro un sacco di persone che si vestono come matti pensando di essere degli artisti. Quando un artista è uno che si veste come un borghese, pensando come un matto.

Gustave Flaubert

1 commento:

  1. "Io ero nel bel mezzo della mia stanza e non facevo assolutamente nulla se non respirare e, naturalmente, lasciare che ogni altro normale processo continuasse a svolgersi" - Confessioni di un artista di merda di P.K. Dick -

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