venerdì 12 marzo 2010

Avatar


Visto Avatar. Com'è? Domanda sbagliata. Nessun avverbio può essere accostato al nuovo film di James Cameron. Avatar è, nel bene e nel male, un'esperienza. In altre parole: "è" e basta. Con ciò riportando il cinema indietro di 100 anni abbondanti. Nella biforcazione dello sguardo che da un lato vede incamminarsi i fratelli Lumière verso la ricognizione del sensibile, e Méliès a perlustrare i regni eventuali della fantasia - che sono pur sempre evento solo procastinato nel tempo, e innestato dalla fantasia dentro la corteccia del reale.
Cameron è allora come se volesse ricucire questo congenito strabismo, mostrando come l'immaginazione possa avere effetti tangibili di realtà. Tanto che la sua fantasmagoria ecologica e tridimensionale, proprio perché radicalmente fantastica, inverosimile fino all'eccesso, tende infine al suo opposto. Una riconnessione profonda e meravigliata con l'esperienza primigenia di essere parte di un tutto vitale. Che è tutto, ossimoro fiammeggiante, in conseguenza al fatto che ne siamo parte irriducibile, ma interattiva e palpitante.
L'apologo paradossale consisterebbe dunque in questo: mettere in campo la più potente macchina d'artificio forse mai prodotta dall'industria cinematografica fino ad ora, per recuperare una percezione viva e innervata dell'esperienza originaria. Essere, esserci in un luogo e a causa di quello stesso luogo, di cui siamo effetto ma anche condizione, figli che diventano padri dei loro padri, e da cui ogni fuga della volontà è il prodotto arrogante di una hybris.
Lo scontro presente in Avatar non è dunque quello tra Bene e Male, ma tra intransitività culturale, chiamiamola così, incarnata nella figura del comandante militare della spedizione, e transitività cosmica. Che vede l'affermazione dell'umano proprio nel suo transumanare in un'altra specie e perfino nel "bios" di natura, coincidendo con la totalità dei mondi.
Il clone biomeccanico Sully, agito a distanza da un ex marines che si trova su una sedia a rotelle in seguito a un incidente di guerra, è l'emblema di questo percorso di rifondazione percettiva, quasi fosse una summa esperienziale del pensiero di Giordano Bruno. Non è la morale a essere meticcia, sembra suggerirci Cameron\Bruno, ma lo sono la realtà e lo spirito, di cui fa parte a pieno titolo anche la fantasia. E questa non è solo New Age, ma sensibilità e percezione che possedevano le antiche popolazioni amerinde, a cui pure il film è stato accostato, quanto i sapienti di ogni tempo sulla terra.
La domanda iniziale e corretta sarebbe allora forse un'altra. Ci riesce, la sintassi tecno-barocca di Avatar è adeguata a svolgere un discorso vero e credibile sul mondo e sulla vita, quanto sulla fantasia come levatrice storica del possibile? Oppure, come avviene per le narrazioni ispirate proprio alla cultura della Nuova Era, scade in pedanteria didascalica, semplificazione stereotipa e confortante?
Non lo so, la mia impressione è che sia un film riuscito solo in parte, ma non ozioso né calligrafico nella scelta di un registro magniloquente e suggestivo. Perché almeno per la parte mezza piena della bottiglia, quella appunto dell'esperienza, di una meraviglia panica e disarmante ogni residua difesa di ragione, qui pienamente funzionale al tema, Avatar è. Incontestabilmente e appassionatamente è.

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