I giovani pensano solo a drogarsi, ciulare e ascoltare musichette sceme.
Questa l’estrema e brutale sintesi di una narrazione condivisa, che nella sua
versione 2.0 è divenuta storytelling; ciò di cui i giovani vengono
rimproverati, naturalmente, è un ruolo attivo nella diffusione del contagio.
L’ennesima sciocchezza da social network, dunque? Sì e no.
Se penso ai miei vent’anni, tocca
riconoscere che la famigerata triade sex
and drugs and rock & roll possedesse una collocazione psichica
polarizzante; e per quanto il sesso fosse perlopiù solo agognato, le droghe
poche e leggere (ma in compenso molta birra, ora sostituita dagli Spritz) e le
musichette sceme coincidessero con Lou Reed, Talking Heads, De Gregori, Pink
Floyd, che poi tanto scemi non erano. Chiamiamola dunque e più cautamente: una
disposizione estroversa al mondo, su cui mi pare tutti convengano.
Lo sporgersi fuori e oltre a sé dei
ragazzi si traduce in maggiori relazioni – spesso virtuali, ma sempre e ancora
anche fisiche –, che è proprio quanto si vorrebbe adesso evitare, con ottime
ragioni sanitarie. Si chiede insomma ai giovani di invecchiarsi un poco,
rinunciando, per qualche mese, a uno slancio costitutivo del loro essere. Da
ciò la replica, perlopiù agita e non verbale, che vuole illegittima la
richiesta, e parafrasando Edith Piaf ognuno deve essere fino in fondo quel che
è: “je suis comme je suis”.
Molti dei bisticci, le polemiche,
perfino gli insulti che ho letto in questi giorni, finiscono così col ruotare
attorno a un tema filosofico altrettanto antico: dove inizia io, e dove termina
il mio diritto a essere semplicemente ciò che sono?
Se, effettivamente, l’identità civile si
arresta al perimetro del godimento personale, fanno benissimo i giovani (ma
anche i meno giovani) a rivendicare i loro baci, il corpo a corpo negli sport e
nei concerti, perfino la movida notturna e gli aperitivi e gli spinelli; ma
anche lo studio in presenza di Tacito e Svetonio, che sono affluenti non meno
importanti di una personalità ancora in fieri.
Un esempio di questa forma pensiero è lo
scrittore e drammaturgo Stefano Massini, che in collegamento video con Piazza Pulita rivelava di essere
risultato positivo al Covid-19. L’ho preso, probabilmente, facendo teatro,
aggiungeva con una punta di civetteria. Il teatro è il mio lavoro, la mia vita,
ciò che sono e ciò che amo. Parole bellissime, che però contengono un insidioso
sotto testo: sono orgoglioso di essermi infettato (ed eventualmente trasmesso
ad altri il virus), perché non potrei pensare alla mia vita senza di me.
Se radicalizziamo il suo ragionamento,
dobbiamo riconoscere che anche chi si intruppa senza mascherina ai comizi di
Donald Trump, o si allunga verso l'ultima oliva ascolana al bancone dell’happy
hour, o magari parcheggia dietro un distributore Agip per fare sesso con una
prostituta nigeriana, anche loro stanno ascoltando una vocina interna che prova
a informare il pronome io, e con esso restituire compimento a vite che siano
davvero singolari. Scelte, nient’altro che scelte. Come quella di Massini di
prendersi il coronavirus sulla scena.
Il tema che sta alla base del dibattito
sulla legittimità dei provvedimenti restrittivi, slitta così nuovamente dai
limiti in cui uno stato diviene autoritario – per il grande filosofo del
diritto Giorgio Agamben, anche l’obbligo di mascherina è una pericolosa deriva
verso l’autocrazia – per focalizzarsi sugli incerti confini dell’identità. Una
domanda che si era già posta nel quinto secolo Eraclito, rispondendosi che “per
quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai
trovare i confini dell’anima: così profondo è il suo lògos.”
Ma Eraclito era proverbialmente oscuro,
e, magari, potremmo provare a tradurre anche lui con i versi di una canzone,
con cui Umberto Tozzi partecipò al Festival di Sanremo nel 1991, aggiudicandosi
il quarto posto. Gli altri siamo noi
veniva detto nel titolo e ripetuto nel refrain, gli altri sono lo specchio
specchio delle mie brame, senza cui, non solo, non esisterebbe il reame, ma
anche Grimilde che contemplando la superfice riflettente pronuncia il suo nome,
diviene un io, sperando solo in seconda battuta di essere più bella degli altri
io.
Per quel che mi riguarda, non so davvero
chi abbia ragione: Umberto Tozzi oppure Edith Piaf… Ma se nell'Occidente delle
libertà individuali fosse rimasta, come una matrioska, una traccia di noi
dentro l'involucro dell'io, non solo avremmo tutto il diritto di chiedere ai
nostri giovani di rinunciare (a tempo determinato) a un po’ della loro
gioventù, ma di spiegare a Stefano Massini e Giorgio Agamben che si può essere
quello che si è, je suis comme je suis, anche indossando una cazzo di
mascherina.
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