Ieri, mentre ero in coda dal fruttivendolo per acquistare i caco mela, o cachi mela, non so bene come si fa il plurale ma sono buonissimi, ho sentito un mio coetaneo (e però con molti più capelli, tutti neri), un cinquantenne dall’eleganza vetusta fare la seguente affermazione: “C’è solo una cosa più brutta di un uomo che fa jogging, ed è una donna che fa jogging.”
Oddio, che frase brutta e volgare ho pensato.
Intollerante. Sessista. Un concentrato di scorrettezza politica; non basta ad
assolverla la fobia virale che ci stringe le viscere e altre parti anatomiche.
Malgrado il mio piumino sdrucito e la sciarpa scozzese che ci fa cazzotti, mi
sono così sentito di parecchi gradini superiore a quell’uomo elegante – più coltivato
e civile, diciamolo pure.
Tornando a casa con il mio
sacchettino di caco mela, o cachi mela, insomma ci siamo capiti, ho continuato
a pensare alla sua uscita, la sua infelice e brutta e stupida uscita di fiato
dalla bocca, filtrato dalla mascherina. Ma più ci pensavo, più mi accorgevo che
c’era una parte di me che sconciamente vi aderiva…
Non era un pensiero, intendiamoci, non un concetto o peggio un’asserzione, ma uno stato d’animo confuso. Vedevo scorrere davanti agli occhi delle donne non più giovani che arrancano con un rictus facciale, le scarpe tecniche attraversate da lingue di fuoco, dardi metallizzati; e poi i leggins sudaticci, la felpa simile al colore degli evidenziatori Stabilo Boss con cui in terza media si sottolineava la cifra 1492 (scoperta dell’America veniva scritto accanto a matita, si sa mai che la confondessimo con la cilindrata dell’auto di papà).
Soprattutto, percepivo l’assoluta intransitività – umana, civile, affettiva – di chi corre indifferente a tutto e tutti, con occhio solo per il cardiofrequenzimetro compulsato in continuazione, come lo scolaro che conta i minuti in attesa della campanella. Quando suonerà verrà svelato il monumento alla propria incorruttibile salute.
Eppure, queste sensazioni, so che non le posso
dire, non le posso scrivere e in fondo neppure ammettere. Dunque dimenticatevi
ciò che avete appena letto: non riconoscerò mai che siano le mie parole; e
infatti sono ancora dentro che vagano in cerca d’autore, come i sei personaggi
di Pirandello.
Nei giorni scorsi ho letto l’intervento di uno scrittore, Giordano Tedoldi. Quando entro in libreria, confidava sulla sua pagina Facebook, faccio sempre più fatica ad accostarmi alle nuove uscite, mi sembrano tutte simili tra loro: ben scritte, edificanti, rispettose di minoranze etniche e sociali, ma prive di quello scarto che non le rende necessariamente più belle – sono anzi spesso imperfette, quelle poche disallineate –, e però tanto più interessanti. I primi nomi a cui si pensa in questi casi sono Cèline e Houellebecq; ma ne esiste anche una versione italiana, Dante Virgili.
Il tema mi sembra così diventare: la dicibilità
e la sua ombra . E ricordiamo nuovamente, ormai lo fanno un po’
tutti, volta più volta meno, la settima asserzione del Tractatus
Logico-Philosophicus di Wittgenstein: “su ciò di cui non si può parlare, si
deve tacere.”
Tra ciò che va taciuto io includerei
l’imperfezione del mondo; ma non un’imperfezione qualunque, e piuttosto quella
che si realizza nel gesto goffo di fare il bene, o, essendo impossibilitati, nello sviare un po' vigliaccamente il male. Un’imperfezione virtuosa dunque, se è vero che neppure noi gradiremmo
essere riconosciuti per le piccole incrinature di cui siamo portatori, specie
quelle che non ci vedono responsabili. Diciamo pure e in modo un po’ roboante:
la ferita ontologica.
A Wittgenstein fa però eco Samuel Beckett,
quando, a conclusione de L’innominabile, scrive: “Bisogna continuare, non posso
continuare, bisogna continuare, e allora continuo.”
Mentre tolgo dal sacchetto i cachi, chiamiamoli
per prudenza a questo modo, li afferro con delicatezza e li ripongo nella cesta
della frutta, mi viene da sintetizzare così la minima avventura dal fruttivendolo: esistono i pensieri, la filosofia, esiste la buona educazione che
fa capo al dicibile; poi esiste un regime della lingua più sfumato e ambiguo,
che chiamerei provvisoriamente immaginazione. Immagino attraverso le parole,
più che dire attraverso l’immagine. E lì che la letteratura continua dove si arresta il concetto.
I libri di Michela Murgia, Saviano, Alessandro
D’Avenia, tanto per fare i primi nomi che mi vengono in mente, magari sono pure
scritti bene ma ci trovo dei pensieri in qualche modo già pensati, ci trovo il dicibile. Manca l’immaginazione, da sempre
un po’ maleducata. Mentre i libri da cui ricavo una sfida – una sfida in forma di specchio, in cui non scopro se sono il più bello del reame ma parti di me occultate sotto la divisa d'ordinanza – sono quelli che, senza affermarlo, riescono a includere quei
pensieri che non riesco ad ammettere nemmeno a me stesso, posso solo
immaginarli. Ad esempio, che le donne che fanno jogging anche a me fanno un po’
schifo...
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