Juliana, Juliana Hoxhaj. Lo leggo su un manifesto funebre in un font vagamente lezioso. Sta sulla bacheca arrugginita a fianco del parcheggio del consorzio di Montagna, dove lascio l’auto per avviarmi nella camminata mattutina. Una passeggiata prima di pranzo, mezz’ora circa tra i vigneti del castel Grumello, e una nel pomeriggio. Totale un’ora d’aria al giorno, come i carcerati.
Juliana Hoxhaj…
A lato la fotografia di una donna come si dice nel pieno della vita. Indossa un abito di cotone a riquadri bianchi e blu nello stile delle tele di Piet Mondrian, i capelli lunghi sono sciolti su spalle robuste. Ci ha lasciati Juliana Hoxhaj, 42 anni, lo annunciano il marito Andon, i figli Lorena ed Enrico, guardo meglio… È lei.
L’avevo conosciuta un paio di anni fa,
quando, su suggerimento di un amica – è brava, energica e veloce –, è venuta a
casa nostra per aiutare mia madre nelle pulizie domestiche. Credo di averle
parlato non più di due o tre volte. Sì, tre.
Durante la prima mi aveva enumerato i
personaggi televisivi e i cantanti che le piacevano. Purtroppo, non ne
conoscevo nessuno. Nella seconda è stato per un giudizio senza appello e
diritto di replica. Le donne albanesi sono più belle di quelle italiane. In che
senso, scusa? Sono più belle perché sono più in carne, e aveva concluso la
frase con un sorrisetto compiaciuto. Credo sia inutile aggiungere che lei fosse
albanese.
Alla terza conversazione mi ero già
costruito il mio bel pregiudizio: abbiamo gusti e interessi diversi, in
particolare sulle donne – per me Irène Jacob rimane il modello inarrivabile di
bellezza femminile, e tanto in carne non è. Insomma, mi ero predisposto a
comunicazioni formali e distratte. E invece boom! Ho un cancro, mi ha detto
senza tanti giri di parole, non posso più venire a fare le pulizie. Un cancro al seno. Ma non voglio morire: ho due
figli, sono ancora giovane. Poi una lunga pausa. Ho troppe cose da fare!
Da quella volta l’ho intravista in una
sola occasione, io in auto e lei a piedi. Camminava a piccoli passi, gonfia per
il cortisone e con un foulard in testa a velare gli effetti della
chemioterapia. Devo confessare che l’impossibilità di scambiare due parole
l’avevo vissuta con sollievo. Vigliaccheria? Probabilmente.
Mia madre le telefonava i primi tempi
per sapere come stava, ricavando l’impressione che non ne parlasse volentieri.
Così aveva desistito, e, col passare dei giorni e l’incalzare degli eventi, ci
eravamo quasi dimenticati di Juliana. Fino a questa mattina.
Non voglio dire altro di lei, credo non
mi spetti; l’ho conosciuta troppo poco e solo in superficie, senza aver fatto
nulla per incidere la scorza che separa dal frutto. Mi limiterò dunque a far
risuonare nella mia testa quell’ultima frase: ho troppe cose da fare.
Mi ricorda una conversazione, forse
inventata, attribuita a Miguel de Cervantes, a cui qualcuno chiese come mai
avesse scritto il Don Chisciotte solo a un’età ormai avanzata; cinquantasette
anni, che all’epoca erano davvero tanti. Prima avevo delle cose da fare, aveva
risposto senza scomporsi.
Ci sono persone che hanno delle cose da
fare prima, brigano, sgobbano, si cimentano; altri invece dopo, nei tempi
supplementari della vita. Ci sono le persone e ci sono i fatti. Infine ci siamo
noi, che non sappiamo quasi nulla di entrambi.
Poco importa se queste cose coincidano
con la scrittura di un capolavoro o con la rimozione delle carcasse
degli acari sepolte sotto a un tappeto dell'Ikea; badare ai propri figli, farli crescere sani e forti
e onesti; oppure avere un corpo in carne, ascoltare improbabili cantanti. Poco
importa.
Semplicemente, ognuno ha le sue cose da
fare, anche i vecchi parcheggiati nelle RSA, quelli che pagano pegno per essere "fuori dal
ciclo produttivo", chi può dire che non abbiano ancora delle cose da fare, e se valgano più o meno delle cose dei giovani, dei giovani dentro, le nostre cose…
Cose, che bella parola! La usano i
bambini come un vaso in cui mettere dentro un po’ di tutto. Spero solo che
Juliana, nei due anni trascorsi dalla diagnosi del suo male, sia riuscita a
realizzare le cose, tutte le sue troppe cose, per quanto ne dubiti molto. Se così fosse
il vaso delle cose sarà rimasto a bocca aperta, in attesa di essere imboccato.
Saranno allora persone diverse (un
figlio, il marito, la sorella o magari quell’amica che me l’aveva raccomandata)
a dover completare le cose lasciate in sospeso da Juliana. Perché farsi i cazzi
propri – ed è questa la lezione che mi porto a casa dalla mia passeggiata tra le vigne – a volte equivale a mettere le mani dentro le cose degli altri.
Buone cose Juliana, Juliana Hoxhaj, e
che la terra ti sia lieve.
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