venerdì 13 novembre 2020

Le cose degli altri


Juliana, Juliana Hoxhaj. Lo leggo su un manifesto funebre in un font vagamente lezioso. Sta sulla bacheca arrugginita a fianco del parcheggio del consorzio di Montagna, dove lascio l’auto per avviarmi nella camminata mattutina. Una passeggiata prima di pranzo, mezz’ora circa tra i vigneti del castel Grumello, e una nel pomeriggio. Totale un’ora d’aria al giorno, come i carcerati.

Juliana Hoxhaj…

A lato la fotografia di una donna come si dice nel pieno della vita. Indossa un abito di cotone a riquadri bianchi e blu nello stile delle tele di Piet Mondrian, i capelli lunghi sono sciolti su spalle robuste. Ci ha lasciati Juliana Hoxhaj, 42 anni, lo annunciano il marito Andon, i figli Lorena ed Enrico, guardo meglio… È lei.

L’avevo conosciuta un paio di anni fa, quando, su suggerimento di un amica – è brava, energica e veloce –, è venuta a casa nostra per aiutare mia madre nelle pulizie domestiche. Credo di averle parlato non più di due o tre volte. Sì, tre.

Durante la prima mi aveva enumerato i personaggi televisivi e i cantanti che le piacevano. Purtroppo, non ne conoscevo nessuno. Nella seconda è stato per un giudizio senza appello e diritto di replica. Le donne albanesi sono più belle di quelle italiane. In che senso, scusa? Sono più belle perché sono più in carne, e aveva concluso la frase con un sorrisetto compiaciuto. Credo sia inutile aggiungere che lei fosse albanese.

Alla terza conversazione mi ero già costruito il mio bel pregiudizio: abbiamo gusti e interessi diversi, in particolare sulle donne – per me Irène Jacob rimane il modello inarrivabile di bellezza femminile, e tanto in carne non è. Insomma, mi ero predisposto a comunicazioni formali e distratte. E invece boom! Ho un cancro, mi ha detto senza tanti giri di parole, non posso più venire a fare le pulizie. Un cancro al seno. Ma non voglio morire: ho due figli, sono ancora giovane. Poi una lunga pausa. Ho troppe cose da fare!

Da quella volta l’ho intravista in una sola occasione, io in auto e lei a piedi. Camminava a piccoli passi, gonfia per il cortisone e con un foulard in testa a velare gli effetti della chemioterapia. Devo confessare che l’impossibilità di scambiare due parole l’avevo vissuta con sollievo. Vigliaccheria? Probabilmente.

Mia madre le telefonava i primi tempi per sapere come stava, ricavando l’impressione che non ne parlasse volentieri. Così aveva desistito, e, col passare dei giorni e l’incalzare degli eventi, ci eravamo quasi dimenticati di Juliana. Fino a questa mattina.

Non voglio dire altro di lei, credo non mi spetti; l’ho conosciuta troppo poco e solo in superficie, senza aver fatto nulla per incidere la scorza che separa dal frutto. Mi limiterò dunque a far risuonare nella mia testa quell’ultima frase: ho troppe cose da fare.

Mi ricorda una conversazione, forse inventata, attribuita a Miguel de Cervantes, a cui qualcuno chiese come mai avesse scritto il Don Chisciotte solo a un’età ormai avanzata; cinquantasette anni, che all’epoca erano davvero tanti. Prima avevo delle cose da fare, aveva risposto senza scomporsi.

Ci sono persone che hanno delle cose da fare prima, brigano, sgobbano, si cimentano; altri invece dopo, nei tempi supplementari della vita. Ci sono le persone e ci sono i fatti. Infine ci siamo noi, che non sappiamo quasi nulla di entrambi.

Poco importa se queste cose coincidano con la scrittura di un capolavoro o con la rimozione delle carcasse degli acari sepolte sotto a un tappeto dell'Ikea; badare ai propri figli, farli crescere sani e forti e onesti; oppure avere un corpo in carne, ascoltare improbabili cantanti. Poco importa.

Semplicemente, ognuno ha le sue cose da fare, anche i vecchi parcheggiati nelle RSA, quelli che pagano pegno per essere "fuori dal ciclo produttivo", chi può dire che non abbiano ancora delle cose da fare, e se valgano più o meno delle cose dei giovani, dei giovani dentro, le nostre cose…

Cose, che bella parola! La usano i bambini come un vaso in cui mettere dentro un po’ di tutto. Spero solo che Juliana, nei due anni trascorsi dalla diagnosi del suo male, sia riuscita a realizzare le cose, tutte le sue troppe cose, per quanto ne dubiti molto. Se così fosse il vaso delle cose sarà rimasto a bocca aperta, in attesa di essere imboccato.

Saranno allora persone diverse (un figlio, il marito, la sorella o magari quell’amica che me l’aveva raccomandata) a dover completare le cose lasciate in sospeso da Juliana. Perché farsi i cazzi propri – ed è questa la lezione che mi porto a casa dalla mia passeggiata tra le vigne – a volte equivale a mettere le mani dentro le cose degli altri.

Buone cose Juliana, Juliana Hoxhaj, e che la terra ti sia lieve.


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