giovedì 1 dicembre 2022

Una donna in mutande, o sulla post felicità

Un mio contatto femminile su Facebook, giovane donna dall’aspetto decisamente gradevole, ha appena pubblicato un’immagine che la ritrae ricoperta solo da uno smilzo completo intimo bianco; lo sfondo è domestico, una parete marroncina alle spalle e, sulla sinistra, l’anta di un armadio economico, impiallacciato. Ovviamente i like erano molti, una bella donna svestita fa sempre audience: fuori e dentro i social. A corredo dell’immagine le seguenti parole:

"Parli di donne da buoncostume. (Edit: ho avuto una certa indecisione nel pubblicare questa foto, un autoscatto abbastanza rapido dell’ora di pranzo. Il mio fisico appesantito dai farmaci, senza filtri leviganti, sarebbe stato – ed è ora – sotto gli occhi di tutti. Ma questo è ed è giusto che chi lavora anche con l’immagine non si nasconda quando la forma non è ottimale. Quest’abbondanza di curve non mi rende felice, ma poi neppure particolarmente triste. Tornerò skinny se potrò, quando potrò, quando sarò più serena.)"

Sono parole ben articolate. Denotano consapevolezza di scrittura, ironia, ammiccando, oltre che ai sensi maschili, a una celebre canzone di Vecchioni. Ma anche consapevolezza di sé, del suo momento di difficoltà che è come se venisse testato: il mio corpo, anche se non più “skinny”, può ancora qualcosa…? Vediamo.

Una verifica del tutto lecita, nessun moralismo. Nel testo c'è un passaggio che ha innescato una riflessione speculare. Quando scrive “quest’abbondanza di curve non mi rende felice, ma poi neppure particolarmente triste" lo stesso vale anche per me? Se guardare una donna in mutande non mi intristisce, intendo, riesce a rendermi più felice?

Risposta: sì, quando trafugavo il Postal Market di mia nonna e, chiuso in bagno, mi precipitavo alle pagine dell'intimo femminile. Avevo però dodici anni, non credo funzioni ancora. No, quella immagine di erotismo soft, un po' Edwige Fenech che si mostra sotto la doccia ad Alvaro Vitali, un po' eucarestia laica (prendete e mangiatene tutti, questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi), non mi ha reso più felice.

Sgombriamo nuovamente il campo dal moralismo: il profilo è il suo, e, nei limiti del galateo puritano di Facebook, può farci quello che le pare. Solo che la sua felicità passa attraverso di me: mi attraversa, interroga, chiama in causa. Sono in un certo senso responsabile – ogni domanda ha in sé uno spettro di risposte potenziali, che ne rappresentano l’ombra – della felicità di un essere umano.

Ho così iniziato a pensare se si potesse essere felici da soli… Sì, no, forse. Anche qui la risposta è individuale; per quanto mi riguarda, propenderei per il no. Anch'io ho bisogno di essere osservato, riconosciuto, compreso per essere felice. Nella migliore delle ipotesi amato. Ma amato da un altro – ecco la vera domanda – o come lei da molti altri, una moltitudine indifferenziata che le sussurra non è vero che sei grassa, sei sempre bellissima?

Una relazione senza relazione, in questo caso, uno scambio senza scambio. O meglio, lo scambio avviene a livello del significante: io sono felice nel rendermi segno riconoscibile e riconosciuto, tu sei felice perché quel segno stimola la tua fantasia, ti attizza; equivalente casareccio del francese allumeuse (le donne che si compiacciono nello stuzzicare il desiderio maschile, senza corrispondervi fisicamente).

Ma in un’economia simbolica del desiderio i termini non sono sempre chiari, e alcuni potrebbero intendere una promessa sessuale concreta. Le fantasie di stupro non nascono forse da qui, insieme alle maldestre giustificazioni di chi le mette in atto: “Portava la minigonna, vostro Onore…”

Perciò, nella sua candida flagranza, ho apprezzato il post in questione, l'esibita assenza di transitività con cui offriva il suo limite. La donna in mutande mi sta infatti dicendo che di me non gliene frega niente, non mi vuole ma si vuole – che è poi il sentimento condiviso dal 99% delle persone sui social. Con la differenza che lei lo dice chiaramente, gli altri, me compreso, no. Omettiamo la sostanza come destino antropologico acquisito.

La relazione istituita dalla donna in mutande scavalca invece l'io biografico dei singoli interlocutori con delicatezza, prima li avverte: non mi sto rivolgendo a te, togliti residui grilli dalla testa, io sto parlando alla mia felicità. Di quella soltanto ho interesse. Zero rapporti personali, solo un pubblico non pagante e un primo attore sulla scena. Con un rigido diaframma di pixel a dividere gli scomparti.

A questo modo comprendo la natura di quella che potremmo chiamare post felicità, o felicità 2.0. Come anticipato da Guy Debord, emula le modalità dello spettacolo, fino convertirne le dinamiche in un sistema mondo; una società dello spettacolo, appunto. La felicità spettacolare si dà non quando un io entra in relazione con un tu, ma quando quello stesso io si staglia sopra alla galassia del noi, la incorpora, vampirizza.

Nel caso specifico, ciò avviene con estrema onestà intellettuale, nessuna vana promessa tra le righe. Solo una donna in mutande che si osserva per conto terzi, non velando neppure i problemi di salute per cui sta prendendo farmaci; le pallide carni vengono gonfiate dalle benzodiazepine, si dilatano gli elastici del reggiseno. Cosa che non la rende certo felice, ma quel tempo un giorno finirà. Ed è quanto le auguro di cuore.

Se ti va bene lascia l’obolo del tuo like; si accettano anche complimenti, cuoricini. È sufficiente che batti un colpo per far sentire che io esisto, non tu. Se no levati dalle palle in silenzio. Che è poi quello che ho fatto.

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