Un mio contatto femminile su Facebook, giovane donna dall’aspetto
decisamente gradevole, ha appena pubblicato un’immagine che la ritrae ricoperta
solo da uno smilzo completo intimo bianco; lo sfondo è domestico, una parete
marroncina alle spalle e, sulla sinistra, l’anta di un armadio economico,
impiallacciato. Ovviamente i like
erano molti, una bella donna svestita fa sempre audience: fuori e dentro i
social. A corredo dell’immagine le seguenti parole:
"Parli di donne da buoncostume. (Edit: ho avuto una certa indecisione
nel pubblicare questa foto, un autoscatto abbastanza rapido dell’ora di pranzo.
Il mio fisico appesantito dai farmaci, senza filtri leviganti, sarebbe stato –
ed è ora – sotto gli occhi di tutti. Ma questo è ed è giusto che chi lavora
anche con l’immagine non si nasconda quando la forma non è ottimale.
Quest’abbondanza di curve non mi rende felice, ma poi neppure particolarmente
triste. Tornerò skinny se potrò, quando potrò, quando sarò più serena.)"
Sono parole ben articolate. Denotano consapevolezza di scrittura, ironia,
ammiccando, oltre che ai sensi maschili, a una celebre canzone di Vecchioni. Ma
anche consapevolezza di sé, del suo momento di difficoltà che è come se venisse
testato: il mio corpo, anche se non più “skinny”, può ancora qualcosa…?
Vediamo.
Una verifica del tutto lecita, nessun moralismo. Nel testo c'è un passaggio
che ha innescato una riflessione speculare. Quando scrive “quest’abbondanza di
curve non mi rende felice, ma poi neppure particolarmente triste" lo
stesso vale anche per me? Se guardare una donna in mutande non mi intristisce,
intendo, riesce a rendermi più felice?
Risposta: sì, quando trafugavo il Postal
Market di mia nonna e, chiuso in bagno, mi precipitavo alle pagine
dell'intimo femminile. Avevo però dodici anni, non credo funzioni ancora. No,
quella immagine di erotismo soft, un po' Edwige Fenech che si mostra sotto la
doccia ad Alvaro Vitali, un po' eucarestia laica (prendete e mangiatene tutti, questo è il mio corpo offerto in
sacrificio per voi), non mi ha reso più felice.
Sgombriamo nuovamente il campo dal moralismo: il profilo è il suo, e, nei
limiti del galateo puritano di Facebook, può farci quello che le pare. Solo che
la sua felicità passa attraverso di me: mi attraversa, interroga, chiama in
causa. Sono in un certo senso responsabile – ogni domanda ha in sé uno spettro
di risposte potenziali, che ne rappresentano l’ombra – della felicità di un
essere umano.
Ho così iniziato a pensare se si potesse essere felici da soli… Sì, no,
forse. Anche qui la risposta è individuale; per quanto mi riguarda, propenderei
per il no. Anch'io ho bisogno di essere osservato, riconosciuto, compreso per
essere felice. Nella migliore delle ipotesi amato. Ma amato da un altro – ecco
la vera domanda – o come lei da molti altri, una moltitudine indifferenziata
che le sussurra non è vero che sei grassa, sei sempre bellissima?
Una relazione senza relazione, in questo caso, uno scambio senza scambio. O
meglio, lo scambio avviene a livello del significante: io sono felice nel
rendermi segno riconoscibile e riconosciuto, tu sei felice perché quel segno
stimola la tua fantasia, ti attizza; equivalente casareccio del francese allumeuse (le donne che si compiacciono
nello stuzzicare il desiderio maschile, senza corrispondervi fisicamente).
Ma in un’economia simbolica del desiderio i termini non sono sempre chiari,
e alcuni potrebbero intendere una promessa sessuale concreta. Le fantasie di
stupro non nascono forse da qui, insieme alle maldestre giustificazioni di chi
le mette in atto: “Portava la minigonna, vostro Onore…”
Perciò, nella sua candida flagranza, ho apprezzato il post
in questione, l'esibita assenza di transitività con cui offriva il suo limite.
La donna in mutande mi sta infatti dicendo che di me non gliene frega niente,
non mi vuole ma si vuole – che è poi il sentimento condiviso dal 99% delle
persone sui social. Con la differenza che lei lo dice chiaramente, gli altri,
me compreso, no. Omettiamo la sostanza come destino antropologico acquisito.
La relazione istituita dalla donna in mutande scavalca invece l'io
biografico dei singoli interlocutori con delicatezza, prima li avverte: non mi
sto rivolgendo a te, togliti residui grilli dalla testa, io sto parlando alla
mia felicità. Di quella soltanto ho interesse. Zero rapporti personali, solo un
pubblico non pagante e un primo attore sulla scena. Con un rigido diaframma di
pixel a dividere gli scomparti.
A questo modo comprendo la natura di quella che potremmo chiamare post
felicità, o felicità 2.0. Come anticipato da Guy Debord, emula le modalità
dello spettacolo, fino convertirne le dinamiche in un sistema mondo; una
società dello spettacolo, appunto. La felicità spettacolare si dà non quando un
io entra in relazione con un tu, ma quando quello stesso io si staglia sopra
alla galassia del noi, la incorpora, vampirizza.
Nel caso specifico, ciò avviene con estrema onestà intellettuale, nessuna
vana promessa tra le righe. Solo una donna in mutande che si osserva per conto
terzi, non velando neppure i problemi di salute per cui sta prendendo farmaci; le pallide carni vengono gonfiate dalle benzodiazepine, si dilatano gli elastici del reggiseno. Cosa che
non la rende certo felice, ma quel tempo un giorno finirà. Ed è quanto le
auguro di cuore.
Se ti va bene lascia l’obolo del tuo like;
si accettano anche complimenti, cuoricini. È sufficiente che batti un colpo per
far sentire che io esisto, non tu. Se no levati dalle palle in silenzio. Che è
poi quello che ho fatto.
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