venerdì 16 dicembre 2022

Segni, o sul corpo come testo


Su la Repubblica si susseguono articoli in difesa di Liliane Murekatete, moglie del neoparlamentare di origini ivoriane Aboubakar Soumahoro, di cui sono emerse, prima, delle fotografie in cui si mostrava sui social con borsette Louis Vuitton e altri simboli di raggiunto benessere economico (status), quindi altri scatti erotici risalenti ad alcuni anni or sono.

Ho già scritto sulla vicenda, ma provo a precisare il mio pensiero. Non condivido la posizione di Repubblica per una semplice ragione: non è vero che il corpo di un personaggio pubblico, quale è diventata la signora Soumahoro, è immune da analisi critica in quando corpo, manifestazione tangibile e viva di una singolarità anteriore al discorso pubblico. Quel corpo – nudo o ricoperto da abiti griffati poco importa, non siamo bigotti – è infatti svincolato da ipoteche penali (su quelle si pronuncerà la magistratura in merito ai reati contestati per la gestione delle cooperative di cui Murekatete e cointestataria) ma rappresenta una sorta di "testo", e ciò per espressa volontà di chi lo esibisce con legittimo orgoglio.

Se dunque i giornalisti non possiedono, giustamente, alcuna autorità giudiziaria e tanto meno morale (peggio ancora moralistica), è sulla realtà quando si offre in forma di testo da interpretare che sono tenuti a esprimersi. Si vuole un esempio? Fare il saluto romano è un modo di utilizzare liberamente il proprio corpo: non fa male a nessuno, non ruba, non inquina. Eppure, se comparissero delle immagini che ritraggono il compagno di Giorgia Meloni intento a salutare romanamente, i giornali di sinistra solleverebbero un polverone. E farebbero bene: è un gesto che rappresenta un segno politico certo. E da quel segno, il reato di apologia di fascismo (art. 4).

Ma sono segni, meno plateali e senza alcun reato inscritto, anche quelli esibiti da Liliane Murekatete, segni politici: gli oggetti lussuosi come estensione del corpo, il corpo come oggetto, strumento reificato del piacere maschile. Non colpe, attenzione: segni. Allo stesso modo di quelli esibiti attraverso il corpo-testo di Chiara Ferragni o Fabrizio Corona. E un bravo giornalista, per dirla con Roland Barthes, è colui che sa entrare nei tableaux vivants offerti dalla cronaca per distinguere lo "studium" dal "punctum" – è la differenza che passa tra la neutra referenzialità di un'immagine nel suo complesso, e ciò che comunica nel dettaglio a uno sguardo attento. Ossia, di nuovo, la sua natura di segno.

L'equivoco dei giornalisti di Repubblica (Serra, Di Gregorio, Valerio) diventa così quello di confondere una condivisibile premessa – la piena libertà di espressione in ciò che non lede i diritti altrui – con il testo – una precisa idea di mondo che traspare dalla testualizzazione di sé offerta da una donna indagata per gravi reati, oltre che moglie di un rappresentante della Camera dei Deputati. Segni le cui implicazioni politiche, non solo, la Repubblica tace, ma invita a tacere.

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