Lo scrittore Raul Montanari, con grande candore biografico, racconta su
Facebook di aver sofferto di attacchi di panico, tutto è cominciato il 28
maggio del 1991. Stava in un negozio e ha sentito il cuore sussultare, il
braccio sinistro irrigidirsi ed è scivolato a terra. "Ah, è così," ha
pensato. "È questo, morire." All’ospedale gli hanno diagnosticato un
attacco di panico.
Un’esperienza difficile da spiegare a chi non ne abbia mai sofferto, e che
come lui racconta ha sempre una data d'inizio, un battesimo, ma raramente un
termine altrettanto certo.
Nel mio caso, il battesimo del panico è avvenuto il 2 maggio del 1983
(sempre maggio, che c’entri qualcosa la primavera, il mese delle ciliegie?)
durante una lezione di matematica nel collegio di Celana; o magari si trattava
d'inglese, chi se lo ricorda più… E in effetti forse non era nemmeno il 2
maggio, per quanto l’anno scolastico stava per terminare, i cespugli di
sambuco, vicino alla recinzione da cui sgattaiolavamo fuori per fumarci una
Chesterfield, erano in fiore.
Da quel giorno, la mia vita, come quella di Raul non è stata più la stessa,
anche se in genere si riesce a trovare un compromesso con il panico, un
armistizio. Il più comune è portarsi appresso una capsula di Tavor orosolubile,
o più in generale un ansiolitico. Tanto non lo userai, ti basta sapere che c’è,
all’occorrenza, e questa consapevolezza è sufficiente a scongiurare i sintomi
più allarmanti, che sono quelli da lui descritti accompagnati alla sensazione
che tutto sia perduto.
Lo so che detta così può apparire un po’ retorico, quando il quadro clinico
si risolve alla fine in nulla. Un nulla di cui però rimane un’ombra, che nessun
Tavor o psicoterapia – quelle servono davvero a poco, ma è buffo ascoltare
l’ottusa fiducia dei terapeuti nelle loro rispettive teorie, buffo ma un po'
dispendioso... – riusciranno mai a fugare.
Dopo oltre trent'anni di convivenza con l'ombra della paura, o meglio e
come viene detto la paura della paura, l’immagine metaforica che mi sono
formato è quella dell’ammaestramento di un cavallo. Prima di essere montato,
viene legato a una corda e poi fatto girare in tondo nel maneggio: al passo, al
trotto, a volte perfino al galoppo allungandogli la corda, tanto che il cavallo
potrebbe avere l’illusione di essere finalmente libero.
Ma è appunto solo un’illusione, perché la sua vita equina rimarrà da quel
giorno racchiusa dalla circonferenza mobile del cerchio; in alcuni momenti si
dilata, in altri restringe, ma anche quando non la vedi la corda c’è sempre, e
basta prestare attenzione al solco lasciato in terra dagli zoccoli per capire
che il tuo mondo si è fatto piccolo piccolo e tondo. Dal 28 maggio del 1991,
per Raul. Dal 2 maggio del 1983, per me. O comunque era nel mese delle ciliegie
e del sambuco.
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