domenica 20 giugno 2021

I nomi e le cose 2

Nei giorni scorsi ho scritto su Facebook un post in cui rispondevo a Lisa Ginzburg, ricordandole gli ostacoli e i privilegi, spesso involontari, connessi a quella parolina che qualifica la nostra funzione in società, e che chiamiamo cognome. Quel mio intervento ha ricevuto un numero impressionante di like e di commenti, quasi divenendo un piccolo caso da social, un "casino" potremmo dire visto un non intendersi diffuso.

Confesso che il successo mi ha sorpreso, anche perché ero critico ma non polemico nei confronti della Ginzburg, e Facebook premia le zuffe da cortile. Alcuni di questi commenti prendevano vie proprie ed estranee al testo, oppure erano battute, tifo da stadio, acclamazioni. Alla fine mi è venuto il dubbio che il mio pensiero venisse fuorviato, e provo allora a precisarlo già che ritengo la questione di offuscata e generale attualità; Lisa Ginzburg, intendo, senza forse rendersene conto ci chiama in causa. Ma noi non siamo lei, Madame Ginzburg n'est pas moi!
Partiamo da un dato sociologico terra terra: se io mi chiamassi Ginzburg avrei compiuto studi migliori (dopo le medie avrei voluto fare il Liceo, mio padre mi iscrisse a Ragioneria); avuto professori più capaci e in grado di catturare la mia attenzione, che con materie come stenografia e diritto commerciale è un po' scemata; spartito i banchi con compagni dalla dolcevita nera, l'aria imbronciata o la camminata internazionale di Totò quando viene accolto a Capri nella villa di Franca Valeri. Quindi avrei compiuto viaggi in effetti a Rimini ci andai una volta terminata Ragioneria e prima d'iscrivermi a Filosofia, ottenendo la solita domanda: ma che cavolo di lavoro è, il filosofo? , imparato lingue straniere, ricevuto buone dritte di lettura senza dover fare ogni volta come il barone di Münchhausen, che si pigliava per la collottola da solo per non precipitare. Nel mio caso l'abisso era costituito da una provincia avvertiva, da principio, come tiepida e confortevole, ma poi sempre più digrignante, mostruosa.
Anche Lisa Ginzburg dice di aver seguito questa pratica bizzarra, di essersi fatta come si dice da sola; niente di ciò che ha ottenuto era fuori dai suoi sforzi e grazie alla famiglia, sottolinea più volte. E su un aspetto possiamo crederle: non ha ricevuto quelle raccomandazioni che mio padre aveva invece in serbo per me, utili a confinarmi in qualche banca valtellinese da cui sono riuscito a sottrarmi. E già che conosce il francese molto meglio del mio balbettio, forse conosce anche il concetto di petit décalage, piccolo scarto, che secondo Sartre corrisponde al grado di libertà con cui possiamo fare qualcosa di ciò che gli altri hanno fatto di noi. Ma è qui che perfino Sartre si sbagliava, almeno in termini quantitativi. Perché lo scarto è piccolo piccolo per una Ginzburg ma enorme per uno come me, almeno se non vuole corrispondere alla destinazione scritta nel proprio cognome, che fa di ogni nascita un pacco postale con l'indirizzo già scritto.
Mettiamo dunque e come premesso che il mio cognome, Bussoli, poi cambiato in Hauser da Kaspar Hauser, il senza famiglia per definizione, fosse invece stato Ginzburg. Ma mettiamo ancora che anche in quella fortunata circostanza fossi rimasto il fantozziono ragioniere che sono; il me della finzione (personaggio) coincide col me che sta scrivendo (autore). Ebbene, anche in tal caso e senza alcun aiutino da parte dei miei illustri quanto ipotetici famigliari, ma semplicemente perché il sistema culturale è più realista del re, ora io starei scrivendo, pagato, su qualsiasi giornale o rivista del mondo. E sottolineo PAGATO ma anche QUALSIASI, già che pure da ragioniere, vai tu a sapere come e perché, ho comunque maturato abilità nella scrittura; scrivo insomma bene e lo so, nessuna mano di vernice su quel sepolcro che si chiama falsa modestia.
La mia non è una querimonia, ci sono molti altri ragionieri (Montale) che scrivono altrettanto bene se non meglio di me, ma la maggior parte può mingere i propri pensierini solo dentro l'orinatoio di un social network, dove leggiamo che una Ginzburg non ha avuto alcun vantaggio dai propri natali, nessun abbrivio famigliare. È una self made woman. A uno un po' gli girano, dai.
No cara, direbbe allora Pasolini con lo stesso tono con cui si rivolgeva ai rampolli borghesi di Valle Giulia, se fossimo dei Ginzburg noi non dovremmo scrivere interventi come questo, non vedremmo totalmente disconosciuto il nostro talento, per tornare a vivere a cinquant'anni con la mamma (perché siamo disoccupati, esodati dal flusso di gesti e parole pubbliche che fanno mondo), non faremmo in sintesi la vita che facciamo ma un'altra con più occasioni, riconoscimenti e anche vantaggi materiali, diletti; Parigi è meglio di Sondrio, parliamoci chiaro.
Aggiungerebbe Lacan che se ciò che amiamo nell'altro è sempre il nome ("l'amour est toujours l'amour pour le nom"), è il cognome a essere remunerato, obliterato quale oggetto sociale di scambio e consumo, brand. Il nome, utilizzando ancora le evocative categorie dello psicanalista francese, si iscrive così nella dimensione dell'immaginario, dove tra un io e un tu non vi è alcun filtro se non le reciproche proiezioni, mentre il cognome è ricompreso nella sfera del simbolico, le Grand Autre, rappresentata dall'ordine implicito su cui si fonda il potere, un potere sedimentato nella parola. La parola ci parla infatti prima ancora di essere parlata, proprio come avviene nel cognome che è arruolato nell'esercito del Grande Altro, autentico e leggendario re del mondo. Ma ci sono cognomi soldato semplice e altri generale.
Mi sembra incredibile dover ricordare che nascere dentro la divisa con le quattro stellette di un Ginzburg significa essere dentro una particolare forma di potere. Possiamo ingenuamente avvertirlo come naturale, ma in realtà è un potere storicamente determinato che a livello accademico ed editoriale apre porte anche senza alcuna mano fisica, telefonata, raccomandazione a premere sulla maniglia. E questa è politica, non un gioco araldico da salotto del barrio alto.

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