Romano Madera, in una lezione presso Philo, l'associazione di pratiche filosofiche da lui fondata, suggerisce che la pandemia è stata sociodelica, e cioè ha contribuito a portare in superficie (quindi rendere evidenti) le strutture sociali sottostanti, il dispositivo lo chiamerebbe Foucault.
Non è necessario ascoltare i filosofi
per avere una vita ricca e piena – si può campare fino a cent'anni senza aver
mai letto Freud, cantava Rino Gaetano – ma tutte le volte che ascolto la voce
pastosa di Romano Madera mi sembra di sentirmi non tanto più intelligente, ma
bello. E quando si entra nella scia della bellezza, il corpo, di cui il
cervello fa parte, ha reazioni simili a quelle dei danzatori: inizia a muoversi
per integrarla con propri ricami, che non ne oscurano la matrice originaria ma
la fanno fiorire.
Nella circostanza, ho aggiunto al quadro
il dettaglio che, oltre a essere sociodelica, la pandemia è stata anche antropodelica, rivelandoci un lato
nascosto nelle persone che conosciamo, o meglio pensavamo di conoscere e ora si
mostrano con un volto nuovo, spesso inquietante. Per accordarci al pensiero di
un altro filosofo, potremmo vederla come un'estensione della metafisica del tragico proposta da
Lukács, in cui il significato dell'esperienza si offre per illuminazioni
puntuali e spesso drammatiche, nelle quali vengono ricapitolate porzioni di
vita molto più ampie.
La pandemia, dunque, come
ricapitolazione del nostro tempo e dei nostri amici, a volte meno amichevoli di
quanto eravamo portati a credere. Ma in fondo una crisi dovrebbe avere proprio
questa funzione: distinguere, discriminare (krino)
il grano dal loglio. Quindi scegliere cosa tenere e cosa buttare, perché ormai
inservibile o trascorso.
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