Su Facebook è divenuto di moda burlarsi di quei genitori che, sullo stesso social e sempre più numerosi, celebrano le specialissime virtù dei loro figli. A
volte il dettato è semplice e impressionistico – basta una fotografia –, ma in
altri casi la scelta stilistica si fa sofisticata, come quando vengono
imbastiti dei dialoghi sul modello platonico in cui anche piccolissime creature
già danno prova di acume, arguzia, umorismo, talento, epistemologia, euristica
e chi più ne ha più ne metta.
Si potrebbe obiettare che questa forma
di ironia contiene il medesimo vizio d’origine: guardate come sono
intelligente, più intelligente di un bambino che si vorrebbe intelligentissimo;
ma io ho colto nel segno del vostro ingenuo orgoglio di mamme e papà e ora rido
di voi, o meglio ancora vi de-rido in un gesto ugualmente pubblico, e cioè
mirato all’universale. Per questo, ho l'impressione, i due comportamenti sono
più omogenei di quanto sembri.
Sì, procurano imbarazzo i post di quei
genitori che srotolano tappeti rossi di parole sotto ai piedini incerti dei
figli, allo stesso modo in cui imbarazzano la maggior parte degli altri post,
dove sul tappeto rosso viene fatto sfilare il nulla dei nostri pensierini da
nulla; e se proprio non c’è nient’altro da scrivere, prendiamo per il culo gli
altri, i genitori, i figli, tutti quanti. Alla fine del gioco al massacro
resterà in piedi solo un pronome: io.
Tutto negativo, allora? Sì e no. Perché
Facebook nasce proprio come diario pubblico; si scrive, pubblica, sgomita tra
infiniti altri segni sul punto di annegare nel mare dell’insignificanza, alla
ricerca di un like che faccia da salvagente: vengo spuntato da un pollicione
blu, e dunque sono. Perciò io credo che vada bene così, the medium is the
message. Quando il messaggio è lo stesso di una celebre battuta di John
Cage: non ho niente da dire, e lo dico.
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