martedì 8 giugno 2021

Non ho niente da dire, e lo dico

 


Su Facebook è divenuto di moda burlarsi di quei genitori che, sullo stesso social e sempre più numerosi, celebrano le specialissime virtù dei loro figli. A volte il dettato è semplice e impressionistico – basta una fotografia –, ma in altri casi la scelta stilistica si fa sofisticata, come quando vengono imbastiti dei dialoghi sul modello platonico in cui anche piccolissime creature già danno prova di acume, arguzia, umorismo, talento, epistemologia, euristica e chi più ne ha più ne metta.

Si potrebbe obiettare che questa forma di ironia contiene il medesimo vizio d’origine: guardate come sono intelligente, più intelligente di un bambino che si vorrebbe intelligentissimo; ma io ho colto nel segno del vostro ingenuo orgoglio di mamme e papà e ora rido di voi, o meglio ancora vi de-rido in un gesto ugualmente pubblico, e cioè mirato all’universale. Per questo, ho l'impressione, i due comportamenti sono più omogenei di quanto sembri.

Sì, procurano imbarazzo i post di quei genitori che srotolano tappeti rossi di parole sotto ai piedini incerti dei figli, allo stesso modo in cui imbarazzano la maggior parte degli altri post, dove sul tappeto rosso viene fatto sfilare il nulla dei nostri pensierini da nulla; e se proprio non c’è nient’altro da scrivere, prendiamo per il culo gli altri, i genitori, i figli, tutti quanti. Alla fine del gioco al massacro resterà in piedi solo un pronome: io.

Tutto negativo, allora? Sì e no. Perché Facebook nasce proprio come diario pubblico; si scrive, pubblica, sgomita tra infiniti altri segni sul punto di annegare nel mare dell’insignificanza, alla ricerca di un like che faccia da salvagente: vengo spuntato da un pollicione blu, e dunque sono. Perciò io credo che vada bene così, the medium is the message. Quando il messaggio è lo stesso di una celebre battuta di John Cage: non ho niente da dire, e lo dico.


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