Se
le pandemie fossero una malattia della mente – e, almeno in parte, non c’è
dubbio che lo siano –, prima del vaccino io mi farei una domanda preliminare:
qual è il trauma originario, il rimosso sottostante?
Forse nel credere, come scrive Nico Orengo in
una bella poesia, che la nostra vita sia in dono, non in prestito, e dunque
possiamo farne quel che ci pare; ma anche dove e quando, ossia tutto. E
subito!
Credere, cioè, che
queste rivendicazioni siano un dato di realtà, e non il frutto di una precisa
ideologia, frutto di un altrettanto circostanziata, e, dunque, storicizzata
realtà economica e produttiva.
Da qui la certezza che
mandare il proprio figlio alla lezione di karate e la figlia a quella di danza
classica (o viceversa, non siamo sessisti) siano diritti inalienabili, almeno
quanto farsi un cafferino con la Sambuca Molinari al bar.
Istituire, per quanto
in forma ipotetica, la connessione qui proposta, ci porta a scorgere una
relazione anche tra la crisi sanitaria in corso e quella ambientale, che sconta
lo stesso atteggiamento. D’altronde, lo scriveva già la Bibbia: “siate fecondi
e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare
e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra”
(Genesi 1, 26-28).
Ammettendo tale
vincolo, smette di essere un’eccentrica anomalia la scarsissima diffusione del
contagio in Africa, riportando il problema al cuore della nostra tradizione
culturale. Detto in altre parole, il vulnus psichico si chiama Occidente, di
cui il coronavirus è solo una somatizzazione transitoria.
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