martedì 20 ottobre 2020

Psicopatologia virale


Se le pandemie fossero una malattia della mente – e, almeno in parte, non c’è dubbio che lo siano –, prima del vaccino io mi farei una domanda preliminare: qual è il trauma originario, il rimosso sottostante?

Forse nel credere, come scrive Nico Orengo in una bella poesia, che la nostra vita sia in dono, non in prestito, e dunque possiamo farne quel che ci pare; ma anche dove e quando, ossia tutto. E subito!

Credere, cioè, che queste rivendicazioni siano un dato di realtà, e non il frutto di una precisa ideologia, frutto di un altrettanto circostanziata, e, dunque, storicizzata realtà economica e produttiva.

Da qui la certezza che mandare il proprio figlio alla lezione di karate e la figlia a quella di danza classica (o viceversa, non siamo sessisti) siano diritti inalienabili, almeno quanto farsi un cafferino con la Sambuca Molinari al bar.

Istituire, per quanto in forma ipotetica, la connessione qui proposta, ci porta a scorgere una relazione anche tra la crisi sanitaria in corso e quella ambientale, che sconta lo stesso atteggiamento. D’altronde, lo scriveva già la Bibbia: “siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra” (Genesi 1, 26-28).

Ammettendo tale vincolo, smette di essere un’eccentrica anomalia la scarsissima diffusione del contagio in Africa, riportando il problema al cuore della nostra tradizione culturale. Detto in altre parole, il vulnus psichico si chiama Occidente, di cui il coronavirus è solo una somatizzazione transitoria.


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