George
Steiner, dopo una vita di studio accanito e setaccio di ogni aspetto dell’umano
scibile (pare che a sei anni già parlasse di Platone in greco antico, passando
poi, nelle conversazioni col padre, al latino se l’argomento mutava alla storia
romana, o all’inglese nel caso dell’opera di Shakespeare), George Stainer
espresse infine un profondo scoramento: ma ha senso, ciò che faccio… Sono forse
diventato, grazie ai miei studi, una persona diversa e migliore?
Ricavava il suo dubbio – la cultura non serve niente
(semplifico) – da quanto riverbera dal pozzo oscuro del Novecento, con i
militari nazisti che ascoltavano i deliziosi quartetti di Brahms, leggevano
Goethe prima di addormentarsi, scrivendo lettere tenerissime ai figli; ma poi
la mattina si recavano al lavoro ad Auschwitz o Buchenwald: Quanti dobbiamo
gasarne oggi? chiedevano ancora assonnati al collega.
E che la storia si ripeta, prima come tragedia
e poi come farsa, lo possiamo constatare in questi giorni: a cosa sono serviti i capolavori artistici percorsi dallo sguardo miope e
attento di Sgarbi, quando i commessi del Parlamento lo trascinano fuori perché
non vuole indossare la mascherina?
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