Non giudicate se non volete essere giudicati. Lo so che di teologia non frega niente a nessuno, ma ho talmente pochi follower che posso giocarmi anche quelli. Parlando di teologia.
Il mio sospetto è che la celebre frase contenuta nel Vangelo
secondo Matteo (Matteo 7, 11) sia un'interpolazione postuma; o, comunque, frutto di
una fantasia dell'evangelista, che dopo quasi cent'anni dalle vicende narrate
si ritaglia uno spazio inventivo, una piccola apparizione come Hitchcock nei
suoi film. Offrendo un'indicazione pedagogica assente in tutti gli altri
vangeli, apocrifi compresi.
Un atteggiamento, il non giudizio, che ha avuto in seguito
grande successo (parlo di atteggiamento verbale, non certo di pratica vissuta),
al punto da diventare un mantra della New Age più rozza e corriva.
Quante volte vi sarà capitato di sentirivi dire dall'amico fricchettone, oppure dall'osteopata: non giudicare, accompagnando la frase con un sorrisetto di
superiorità. E quante volte avete trattenuto il vostro vaffanculo. A me, almeno, è accaduto spesso. Bene, ora è
il momento di tirarlo fuori!
Deduco il mio invito da una rilettura dell’intera parabola
cristologica, ma al netto dello svarione di Matteo. Beh, facciamoci caso: è tutto
un giudicare. Gesù giudica questo, quello, quell'altro ancora. Gesù giudica di
continuo, e nel farlo è su di giri, ossia emotivamente coinvolto.
Certo, mi si potrebbe ribattere che Gesù era il figlio
unigenito di Dio, "generato, non creato, della stessa sostanza del
padre", come recita la Professione di fede cattolica. Eppure mi appare
un'obiezione debole, quando il senso profondo dell'essere cristiani consiste
proprio nell'immitatio christi:
"il regno di Dio non viene in maniera da attirar gli sguardi, né si dirà:
– Eccolo qui, o eccolo là, perché ecco, il regno di Dio è dentro di voi"
(Luca 17, 20-21).
L'avverbio greco da cui viene ricavato il termine dentro è entos, che qualcuno, per scongiurare
l'interpretazione gnostica, preferisce (un po' forzatamente) tradurre con tra:
il regno di Dio è tra di voi. A me sembrano piuttosto vere entrambe: il regno è
dentro perché siamo tra uomini e donne; o, meglio ancora, siamo nella nostra essenza (entos) quella relazione, siamo un tra.
C'è una bella poesia di Milo de Angelis, in cui, attribuendo
la voce a un gruppo di medici chirurghi, conclude con le seguenti parole:
"se ti togliamo ciò che non è tuo / non ti rimane niente".
Il qualcosa che ci costituisce, sembra suggerire il grande poeta milanese, è nella dialettica tra dentro e fuori, tra entos-dentro ed entos-tra, di cui già parlava Luca, che aggiunge: "O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?" (Luca 12, 15).
Il giudizio di Dio si colloca dunque sopra, è un supergiudizio più che un pregiudizio, quasi fosse un dolly cinematografico che tutto abbraccia nel suo innalzarsi, mentre il giudizio dell'uomo è orizzontale, sorta di inquadraura frontale simile al ritratto della folla che avanza, nel Quarto Stato di Peliza da Volpedo.
Giudicando, infatti, noi non ci poniamo in una prospettiva di arrogante superiorità, ma al contrario riconosciamo la profonda influenza che gli
altri hanno su di noi, e più che patirla apaticamente ci differenziamo nel gesto verbale del giudizio. Io sono (anche) il
branco di skinhead che ha bruciato il clochard, ma proprio perché mi fanno
schifo – giudizio – il noi comincia a diventare me, self. È ciò che gli
psicologi chiamano formazione reattiva.
La mia rilettura, laica, del cristianesimo, è dunque quella
di un processo psichico che prende avvio da un tutto indifferenziato, per
separarsi e precisarsi nella relazione, non di rado culminante in attrito. Da cui tornare, arricchito della propria individualità, nell'insieme originario
che lo costituisce, il suo entos più vero è profondo. Il regno.
Ciò che nel linguaggio teologico viene chiamato chenosi, è così, a un tempo, lo
svuotamento del Logos divino in funzione dell'incarnazione, e di quello umano
per poter essere riassorbito nella totalità relazionale dell'Essere. Ma nel
frattempo giudico, perché è l'unico modo di affermare, come Cristo, la mia
piena umanità, e quindi trascenderla.
Al contrario, chi ci invita con l'arroganza dei finti saggi a
non giudicare, continua a sostare nella dimensione che Heidegger chiama del si dice: si dice di non giudicare, e io
lo ripeto come il vitello che la notte richiama il fieno dall'abomaso, per
ruminarlo una seconda volta. A questo modo non abbiamo un vero io ma nemmeno un
tutto mistico, ma solo un noi acefalo che non sceglie, quando scegliere si
rivela un equivalente pratico del giudizio.
Giudizio che, se focalizzato, ci porta a scorgere nell'invito al non giudizio un
giudizio a potenza due: io giudico il tuo giudicare perché si dice che non si
dovrebbe fare. Ma vedi un po' di andare affanculo, ma veramente, allora!
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