martedì 27 ottobre 2020

Giudicate, se non volete sprofondare nel si dice!


Non giudicate se non volete essere giudicati. Lo so che di teologia non frega niente a nessuno, ma ho talmente pochi follower che posso giocarmi anche quelli. Parlando di teologia.

Il mio sospetto è che la celebre frase contenuta nel Vangelo secondo Matteo (Matteo 7, 11) sia un'interpolazione postuma; o, comunque, frutto di una fantasia dell'evangelista, che dopo quasi cent'anni dalle vicende narrate si ritaglia uno spazio inventivo, una piccola apparizione come Hitchcock nei suoi film. Offrendo un'indicazione pedagogica assente in tutti gli altri vangeli, apocrifi compresi.

Un atteggiamento, il non giudizio, che ha avuto in seguito grande successo (parlo di atteggiamento verbale, non certo di pratica vissuta), al punto da diventare un mantra della New Age più rozza e corriva.

Quante volte vi sarà capitato di sentirivi dire dall'amico fricchettone, oppure dall'osteopata: non giudicare, accompagnando la frase con un sorrisetto di superiorità. E quante volte avete trattenuto il vostro vaffanculo. A me, almeno, è accaduto spesso. Bene, ora è il momento di tirarlo fuori!

Deduco il mio invito da una rilettura dell’intera parabola cristologica, ma al netto dello svarione di Matteo. Beh, facciamoci caso: è tutto un giudicare. Gesù giudica questo, quello, quell'altro ancora. Gesù giudica di continuo, e nel farlo è su di giri, ossia emotivamente coinvolto.

Certo, mi si potrebbe ribattere che Gesù era il figlio unigenito di Dio, "generato, non creato, della stessa sostanza del padre", come recita la Professione di fede cattolica. Eppure mi appare un'obiezione debole, quando il senso profondo dell'essere cristiani consiste proprio nell'immitatio christi: "il regno di Dio non viene in maniera da attirar gli sguardi, né si dirà: – Eccolo qui, o eccolo là, perché ecco, il regno di Dio è dentro di voi" (Luca 17, 20-21).

L'avverbio greco da cui viene ricavato il termine dentro è entos, che qualcuno, per scongiurare l'interpretazione gnostica, preferisce (un po' forzatamente) tradurre con tra: il regno di Dio è tra di voi. A me sembrano piuttosto vere entrambe: il regno è dentro perché siamo tra uomini e donne; o, meglio ancora, siamo nella nostra essenza (entos) quella relazione, siamo un tra.

C'è una bella poesia di Milo de Angelis, in cui, attribuendo la voce a un gruppo di medici chirurghi, conclude con le seguenti parole: "se ti togliamo ciò che non è tuo / non ti rimane niente".

Il qualcosa che ci costituisce, sembra suggerire il grande poeta milanese, è nella dialettica tra dentro e fuori, tra entos-dentro ed entos-tra, di cui già parlava Luca, che aggiunge: "O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?" (Luca 12, 15). 

Il giudizio di Dio si colloca dunque sopra, è un supergiudizio più che un pregiudizio, quasi fosse un dolly cinematografico che tutto abbraccia nel suo innalzarsi, mentre il giudizio dell'uomo è orizzontale, sorta di inquadraura frontale simile al ritratto della folla che avanza, nel Quarto Stato di Peliza da Volpedo.

Giudicando, infatti, noi non ci poniamo in una prospettiva di arrogante superiorità, ma al contrario riconosciamo la profonda influenza che gli altri hanno su di noi, e più che patirla apaticamente ci differenziamo nel gesto verbale del giudizio. Io sono (anche) il branco di skinhead che ha bruciato il clochard, ma proprio perché mi fanno schifo – giudizio – il noi comincia a diventare me, self. È ciò che gli psicologi chiamano formazione reattiva.

La mia rilettura, laica, del cristianesimo, è dunque quella di un processo psichico che prende avvio da un tutto indifferenziato, per separarsi e precisarsi nella relazione, non di rado culminante in attrito. Da cui tornare, arricchito della propria individualità, nell'insieme originario che lo costituisce, il suo entos più vero è profondo. Il regno.

Ciò che nel linguaggio teologico viene chiamato chenosi, è così, a un tempo, lo svuotamento del Logos divino in funzione dell'incarnazione, e di quello umano per poter essere riassorbito nella totalità relazionale dell'Essere. Ma nel frattempo giudico, perché è l'unico modo di affermare, come Cristo, la mia piena umanità, e quindi trascenderla.

Al contrario, chi ci invita con l'arroganza dei finti saggi a non giudicare, continua a sostare nella dimensione che Heidegger chiama del si dice: si dice di non giudicare, e io lo ripeto come il vitello che la notte richiama il fieno dall'abomaso, per ruminarlo una seconda volta. A questo modo non abbiamo un vero io ma nemmeno un tutto mistico, ma solo un noi acefalo che non sceglie, quando scegliere si rivela un equivalente pratico del giudizio.

Giudizio che, se focalizzato, ci porta a scorgere nell'invito al non giudizio un giudizio a potenza due: io giudico il tuo giudicare perché si dice che non si dovrebbe fare. Ma vedi un po' di andare affanculo, ma veramente, allora!

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