Chiudere le scuole. Trovo sbagliato insistere su questo termine:
chiusura. E chi parla male, ci ha insegnato un vecchio film, pensa male e vive
male.
Continuare ad agitare lo spettro verbale
della chiusura genera infatti malumori, oltre a numerosi equivoci. La scelta
lessicale appropriata mi sembra piuttosto quella di mutazione. Mutare la
didattica: da presenza, fisica, a una speculare presenza, ma cognitiva,
virtuale.
Io ho frequentato tutti i possibili
ordini e gradi di istruzione – elementari, medie, superiori, università –, ma anche
numerosi corsi in cui la didattica era a distanza. E devo dire che mi sono sempre
trovato bene.
Certo, per questo approccio è necessaria
maturità tecnologica e autonomia umana, ed è dunque impraticabile nella scuola
primaria. Per quanto riguarda le medie, ho invece molti dubbi… Parliamone.
Su scuole superiori e università le incertezze si diradano: funziona, la didattica a distanza è pratica ed efficace; compreso il rapporto interattivo col docente, lo
scambio di contenuti (e perfino giochetti verbali) tra i compagni.
Inoltre. L’utilizzo della piattaforma
Zoom rappresenta un problema per ferri vecchi come me, non certo per un ragazzo
di quindici o sedici anni. Non è la soluzione a ogni problema, si intende, ma un piccolo
concreto passo per ridurre la diffusione del contagio; una mutazione che non ha
ricadute economiche, oltre a essere un buon compromesso formativo – ripeto: on-line
le nozioni si trasmettano per davvero, e anche alcuni aspetti relazioni ed
emotivi; non tutti, ovviamente.
Tito Boeri, ospite ieri sera a
Piazzapulita, paventava però scenari drammatici: se sospendiamo la didattica in
presenza, i nostri giovani rimarranno anime perse e neglette; senza un titolo
di studio non troveranno mai lavoro... Una generazione di clochard, in
pratica.
Ecco, se penso a un esempio di cattiva informazione
è proprio questo: associare contenuti inesatti a emozioni basiche, senza
nessuno che lo corregga.
Rimane il nodo di bar e ristoranti.
Perché si va infatti al bar? Perché ti manca la birra casa, o magari la
Sambuca, il caffè… No, per socializzare. E qual è la prima regola, nota anche
alle tribù africane, nel caso della diffusione di un’epidemia? Semplice.
Ridurre i contatti, limitare al minimo le relazioni fisiche tra persone.
Ora si deve decidere da quale parte
tirare la coperta, o, se vogliamo cambiare di luogo comune, avere la botte piena
oppure la moglie ubriaca. Entrambe le cose – socialità e riduzione dei contagi
– dovremmo avere ormai capito che non le possiamo avere. E neppure gli introiti
fiscali che derivano da quelle attività, che andrebbero indennizzate per le
perdite subite.
Essere in democrazia, essere adulti in un pase civile non significa protestare
sempre e comunque – un’attività che sanno fare benissimo anche i bambini,
perfino prima di parlare – ma scegliere. Possibilmente, scegliere con
responsabilità. Un altro termine su cui ci si sarebbe molto da dire…
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