venerdì 16 ottobre 2020

Le parole sono importanti

Chiudere le scuole. Trovo sbagliato insistere su questo termine: chiusura. E chi parla male, ci ha insegnato un vecchio film, pensa male e vive male.

Continuare ad agitare lo spettro verbale della chiusura genera infatti malumori, oltre a numerosi equivoci. La scelta lessicale appropriata mi sembra piuttosto quella di mutazione. Mutare la didattica: da presenza, fisica, a una speculare presenza, ma cognitiva, virtuale.

Io ho frequentato tutti i possibili ordini e gradi di istruzione – elementari, medie, superiori, università –, ma anche numerosi corsi in cui la didattica era a distanza. E devo dire che mi sono sempre trovato bene.

Certo, per questo approccio è necessaria maturità tecnologica e autonomia umana, ed è dunque impraticabile nella scuola primaria. Per quanto riguarda le medie, ho invece molti dubbi… Parliamone.

Su scuole superiori e università le incertezze si diradano: funziona, la didattica a distanza è pratica ed efficace; compreso il rapporto interattivo col docente, lo scambio di contenuti (e perfino giochetti verbali) tra i compagni.

Inoltre. L’utilizzo della piattaforma Zoom rappresenta un problema per ferri vecchi come me, non certo per un ragazzo di quindici o sedici anni. Non è la soluzione a ogni problema, si intende, ma un piccolo concreto passo per ridurre la diffusione del contagio; una mutazione che non ha ricadute economiche, oltre a essere un buon compromesso formativo – ripeto: on-line le nozioni si trasmettano per davvero, e anche alcuni aspetti relazioni ed emotivi; non tutti, ovviamente.

Tito Boeri, ospite ieri sera a Piazzapulita, paventava però scenari drammatici: se sospendiamo la didattica in presenza, i nostri giovani rimarranno anime perse e neglette; senza un titolo di studio non troveranno mai lavoro... Una generazione di clochard, in pratica.

Ecco, se penso a un esempio di cattiva informazione è proprio questo: associare contenuti inesatti a emozioni basiche, senza nessuno che lo corregga.

Rimane il nodo di bar e ristoranti. Perché si va infatti al bar? Perché ti manca la birra casa, o magari la Sambuca, il caffè… No, per socializzare. E qual è la prima regola, nota anche alle tribù africane, nel caso della diffusione di un’epidemia? Semplice. Ridurre i contatti, limitare al minimo le relazioni fisiche tra persone.

Ora si deve decidere da quale parte tirare la coperta, o, se vogliamo cambiare di luogo comune, avere la botte piena oppure la moglie ubriaca. Entrambe le cose – socialità e riduzione dei contagi – dovremmo avere ormai capito che non le possiamo avere. E neppure gli introiti fiscali che derivano da quelle attività, che andrebbero indennizzate per le perdite subite.

Essere in democrazia, essere adulti in un pase civile non significa protestare sempre e comunque – un’attività che sanno fare benissimo anche i bambini, perfino prima di parlare – ma scegliere. Possibilmente, scegliere con responsabilità. Un altro termine su cui ci si sarebbe molto da dire…

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