sabato 12 gennaio 2019

Roma e Milano, un'ipotesi antropologica


Una cosa che stupisce, soggiornando a Roma per qualche tempo, è la presenza di un tipo umano che da principio ci appare come eccentrico al contesto, ma, col passare dei giorni, riconosciamo possedere una sua puntuale ricorsività, per quanto non così frequente. Tipicamente atipico, potremmo dire con un ossimoro.
Si tratta di persone poco affabili, quasi severe, molto controllate nei gesti quotidiani quanto nel porgersi – sempre con grande misura – pubblicamente. Perfino l’abbigliamento, sobrio, quasi clericale, tradisce tali aspetti della personalità, che si condensano in un'assertività morale a volte al limite del moralismo. Ma un aggettivo più di tutto li riassume: rigorosi.
Qualche esempio? Nanni Moretti, Alberto Moravia, Francesco de Gregori, Edoardo Albinati, Eugenio Scalfari, Nicola Piovani, Christian Raimo, Giorgio Agamben. Non esattamente dei simpaticoni, a dirla tutta, e guarda a caso maschi...
Stiamo dunque parlando di una personalità maschile diffusa soprattutto in ambienti intellettuali, e che verrebbe da definire anti-romana. L’elemento distintivo è infatti la negazione biografica dello stereotipo cittadino prevalente, il rugantinismo per intenderci, o le formidabili caratterizzazioni cinematografiche di Sordi e Verdone, che fanno dell’esuberanza caciarona e guitta il perimetro della romanità. Ma è un confine imperfetto, come si può vedere.
Viene allora alla mente lo schema psicologico della formazione reattiva, con cui gli studiosi della materia dicono ci si possa opporre, specie in età adolescenziale, a un’educazione famigliare di cui non si riconosca il magistero, o più in generale comportarsi come il famigerato bastian contrario. Romani talmente stanchi di quella romanità da volemosse bbene, anveedi, ‘sti cazzi, per non parlare della santità der cuppolooone che loro ribaltano di segno: là dove prima c’era il nero ora troviamo il bianco, e viceversa.
Stimolato da tale analogia, provo così a pensare ad altre città che formino reattivamente i propri abitanti, e mi sembra che siano più frequenti al sud. Palermo, ad esempio, oppure Napoli, Bari. Esiste una classe colta o, per essere più precisi, un’élite che occupa i settori pubblici di maggior rilievo, le professioni (avvocati, giornalisti, medici, insegnanti etc.) che da sempre si distingue dagli umori popolari, non li spregia ma ha premura di distinguersi.
Non possiamo però arrivare ad affermare che tali persone siano totalmente altro dai luoghi di appartenenza – Nietzsche la chiamerebbe “malattia delle catene”, a immagine di un lottatore che sembra tutt'uno col suo avversario, la stazione di arrivo con quella di partenza, come se i binari disegnaserro un circolo più che una retta, rendendo il viaggio incompiuto. Eppure, nella contrapposizione ai luoghi che ci vorrebbero ad essi omogenei, qualcosa di diverso accade. Accade dentro, intendo.
A Milano invece no, non avverto lo stesso attrito tra geografia e antropologia, massa e intellettuali. Forse un po’ a Torino, che è città aristocratica e con forte emigrazione meridionale, ma certo meno che al sud. Non so se sia una cosa buona oppure no, ma la frase “io non temo Berlusconi in sé, temo Berlusconi in me" che amava ripetere Giorgio Gaber (appartiene in realtà al piemontese Gian Piero Alloisio) può essere concepita solamente dentro a una sensibilità settentrionale, che si allarga secondo percorsi orizzontali in cui viene revocata la verticalità urbana degli archistar, qui hanno trovato campo libero e sghei. 
E si torna così alla nebbiolina padana che si spande al tramonto tra le rogge, fino a raggiungere, facendosi beffa dei divieti di circolazione, le zone A, B, C, la Madonnina, che tutto e tutti osserva distante sorniona. Ma se la Madonna ci vede per definizione benissimo, da dentro la nebbia, in milanese scighera, tu e io diventano categorie incerte e mutevoli, e come in una memorabile sequenza di Amarcord viene da chiedersi: sarà mica così anche la morte...?
Per questo, quando giro per Milano, sto molto attento ai volti delle persone che incrocio, li studio circospetto senza darlo a vedere. Non per marcare una differenza, come anche a me capita quando mi trovo a bighellonare per Roma  là in fondo sono il milanese, il polentun , ma perché in quelle espressioni distratte che seguono il movimento accelerato del proprio passo, potrebbe celarsi il sintomo di una qualche pericolosa malattia dell’anima. Una loro malattia, ma di riflesso anche mia.

Nessun commento:

Posta un commento