lunedì 14 gennaio 2019

Cesare Battisti, o sul confine sottile tra diritto ed emozione

Ciò che mi ha più colpito nell'arresto di Cesare Battisti in Bolivia, a cui è seguito il grande show mediatico dell'estradizione in Italia, è che tutti possiedono un'opinione al riguardo, specie su quel grande altare ostensivo che sono diventati i social network. Lo spettro dei giudizi passa da "impicchiamolo subito" a "pora stela, dovrebbero abolire tutte le prigioni".
Ma in fondo non ha molta importanza da quale parte della rete caschi la pallina: è il gioco, che conta. Le regole del gioco. E le regole di questo gioco che si chiama diritto, in un paese democratico sortiscono sempre da un'emozione individuale, che nel tempo si rende consapevole di sé. Quindi diviene intento, per essere infine negoziata con milioni di altre emozioni e intenti – una negoziazione astratta, certo, ma con effetti di realtà che prendono il nome di patto sociale –, a formare dialetticamente la lettera della legge, di cui il diritto penale è forse la parte più delicata e significativa, già che il potere che viene alienato alla comunità è qui un potere sui corpi.
Nella giustizia esiste dunque una traccia di quel potere di far male a un altro corpo, costringerne lo spazio, la libertà, che poi non è altro che il sentimento arcaico di vendetta. Possiamo anche metterci le mani sopra gli occhi come scimmie, o direttamente la testa sotto la sabbia come struzzi, ma è così. Nella giustizia è sempre presente un'ombra di vendetta. 
Vendetta che viene naturalmente sublimata in un linguaggio che vorrebbe depurarla da ogni impulso violento, solo in parte riuscendovi. La funzione pedagogica della pena – discutibilissima, per altro, sul piano degli effetti – rappresenta così uno dei due corni di una materia in cui le passioni sono solamente sopite, e di cui l'altro corno serve ancora per infilzare.
Una volta concluso il viaggio che collega la stazione di partenza dell'emozione (vendicativa) a quella di approdo della legge (compensativa), non esiste però biglietto di ritorno, non in tempi brevi almeno, e non si può a ogni notizia che tocca le nostre corde più intime arretrare all'emozione primigenia, da tradurre in bandiera operativa: facciamo questo, non facciamo quest'altro, ci vuole la pena di morte!
Nei codici, apparentemente asettici, della legge, c’è infatti anche un pezzo del nostro cuore, che riscuotiamo ogni volta che saliamo su un mezzo pubblico o mandiamo i figli a scuola. La legge è viva, anche se sembra versare in un perenne stato di letargia. Ma sarebbe una catastrofe se pretendessimo di rivedere il nostro patto a ogni nuova emozione.
Per quel che mi riguarda, non mi procura certo allegria l'arresto di un uomo non più giovane a cui viene azzerata ogni prospettiva di futuro, come non lo ero per i numerosi delitti a esso attribuiti; per altro confermati da numerose sentenze, di cui una definitiva. Il mio giudizio sul caso Battisti esula però totalmente da tali stati d'animo, e consiste nel non avere alcun giudizio. Deciderà di lui la magistratura sulla base della legge italiana, che include le tutele legali per l'accusato e, per quel po' che la conosco, mi pare una buona legge, con un solido fondamento costituzionale.
Ma se anche non sapessi nulla di tutto ciò, sarebbe comunque uguale, già che il processo di civilizzazione (barattare un po’ di felicità per una maggiore sicurezza, lo definiva Freud) implica che non si possa avere competenza e voce su tutto quanto, la complessità può essere gestita solo attraverso un articolato meccanismo di deleghe e attribuzioni.
Altrimenti, dopo il populismo etico e il populismo politico, si arriverà al populismo giuridico. Ossia al linciaggio, o al libero per tutti che si strillava a nascondino. 

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