domenica 20 gennaio 2019

Opera o testo? o sull'interpretazione

Quando da ragazzino ascoltavo i Led Zeppelin, diciamo dalla seconda media in poi, prima mi dilettavo con Ramaya di Afric Simone e Liù degli Alunni del sole (che ancora adesso è una delle mie canzoni preferite, la canto se sono da solo alla guida e non ho problemi fino al refrain, poi la voce deve inerpicarsi sugli acuti intonando "e io sì t'avrei trovato per far l'amore, e io siii..." e qui parte la stecca), quando ascoltavo i Led Zeppelin alle medie, dicevo, più che 'sentire' davvero delle canzoni mi concentravo sugli interpreti. Jimmy Page alla chitarra, Robert Plant alla voce, John (Bonzo) Bonham alla batteria e John Paul Jones al basso.
Ognuno di loro, si diceva 
 e probabilmente era vero , era il migliore della categoria con il proprio strumento, in quella eterna gara che ai preadolescenti piace immaginare tra simili - tra Carole André, nei panni della Perla di Labuan, e la fatina bionda Maria Giovanna Elmi, chi è più figa; e chi più forte tra Hulk e la Cosa dei Fantastici 4; tra Rocco Siffredi e John Holmes chi ce l'ha più lungo? Dilemmi fondamentali, a quell'età.
Ed è così che Ramble On o Whola Lotta Love diventavano una contesa, coriandoli di suono che invece di tenersi assieme in un'esperienza del presente, andavano a cercare nel passato, recentissimo, avversari immaginari (i Deep Purple erano quelli più spesso chiamati in causa) a cui gettare il guanto di sfida. Credo sia la differenza tra opera e testo su cui ancora adesso vedo aggrapparsi molti giudizi, non solo in campo musicale.
Ho letto ad esempio di un critico letterario che rimproverava a Marco Lodoli di usare lo stesso linguaggio delle canzoni di De Gregori. È vero, non avevo mai fatto caso all'analogia ma è verosimile; potremmo però anche dire che De Gregori scrive dei testi con un registro simile a quello di Marco Lodoli. Ma cosa ci dice in più l'osservazione sulla natura delle rispettive opere, a parte smontarle in piccoli mattoncini, con l'intento di sminuire, e così allontanandole dal loro tutto, ossia da un'esperienza vera e profonda di ascolto? 
Secondo me pochissimo. Il linguaggio è infatti solo una delle componenti espressive, così come le linee di basso di John Paul Jones erano solo un ingrediente di quel formidabile impasto sonoro creato dai Led Zeppelin. Ma anche se squadernassimo tutti gli altri ingredienti sul tavolo, come si fa in certe trasmissioni di cucina in onda all'ora di pranzo, qualcosa comunque sfuggirebbe, il lievito si annida al cuore della torta.
Con ciò non voglio tornare a un'estetica crociana un poco ingenua, che riporta ogni gesto artistico alle sole dimensioni di intuizione ed espressione, ma suggerire una maggiore disponibilità a quella che possiamo chiamare un'interpretazione risonante, o se vogliamo utilizzare una parola difficile all'ermeneutica. Invece di bloccare preventivamente l'emozione attraverso la scomposizione del testo (sonoro o verbale poco importa) si potrebbe insomma cercare di capire perché, e come, quell'insieme integrato di segni ha scavato una via dentro di noi, e cosa ne è uscito fuori.
Il testo, in altre parole, da esterno si fa interno, e l'opera diviene misura di una ricognizione personale. Certo, a questo modo i giudizi smettono di essere stabili e assertivi, per quanto io trovo che una certa universalità la si possa ancora reperire. È come nei farmaci, per fare un paragone terra terra. Se hai un semplice mal di testa può bastare un'aspirina, in fondo la biologia umana è per buona parte comune, alla stessa maniera delle radici storiche e culturali.
Quando si tratta di somministrare un piacere semplice ma non banale, rimedio a un momento di lieve e sbadato scazzo, possono così essere sufficienti gli Alunni del Sole, di cui non smetterò mai di sfidare gli acuti alla guida. Ma con La passione secondo Matteo di Bach tocchiamo altre corde e altri mali, è qui più ampio e complesso il vulnus da sanare; un farmaco a cui in un certo senso è anche necessario prepararsi (leggere con cura il bugiardino, ingerire a stomaco vuoto e non distratti da altre sollecitazioni) perché faccia effetto.
Una similitudine un poco irriverente, ma che possiamo estendere anche alla letteratura. Prendiamo uno dei suoi indiscussi campioni, Shakespeare. In quelle gare di forza adolescenziali l'avremmo detto più forte di Marco Lodoli, e in effetti non nego la sua maggiore grandezza. Ma non perché, smontandolo, mostri dei virtuosismi esecutivi ignoti allo scrittore romano, o meglio non solo per questo, ma perché la malattia che il farmaco Shakespeare affronta è la più grave di tutti. Vivere.
E lo fa senza aggrapparsi a palline omeopatiche zuccherine, o a effetti placebo che stanno solo negli occhi di chi guarda, come ci ha insegnato lo stesso Shakespeare. No, lui va fino in fondo con la cura, e trova le parole giuste per farlo; non quelle astrattamente più belle, attenzione, ma proporzionate all'intento. Che poi alla fine si muore lo stesso, intendiamoci, o non sarà forse continuare a dormire, magari sognare...?

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