domenica 20 gennaio 2019

Invero, o sull'eterna questione della lingua in letteratura

La lingua narrativa, il problema della lingua nella narrativa contemporanea. Ritorno alla bella iniziativa realizzata da Vanni Santoni per conto del web magazine culturale l'Indiscreto. Egli, come ho già scritto nel giorni scorsi, pone quattro domande a sessantasei tra critici e giornalisti letterari italiani, il cui perimetro interrogativo comprende le condizioni in cui versano entrambe le discipline: la critica e il suo oggetto.
Le risposte sono come era giusto attendersi molto diverse, ma si manifestano, a volte con incalzante ricorsività, alcuni temi comuni, tra cui quello della lingua con cui oggi vengono scritti romanzi e racconti. Una lingua semplificata, viene detto pressoché unanimemente. Un traduttese aggiunge qualcuno, ossia il calco di scritture straniere, specie anglosassoni, con cui i traduttori convertono forme espressive estranee all'idioma nazionale.
Un esempio tipico è il verbo realizzare con il significato di prendere coscienza, rendersi conto, con cui viene restituito l'inglese to realize, forzando la semantica italiana in una direzione inaudita. Eppure, mi viene da commentare, come che sia (che sia giunta a noi) quell'accezione adesso c'è, è stata prima digerita e poi metabolizzata dal grande ventre del Devoto Oli. Le lingue sono animali voraci che si nutrono anche di scorie.
Ma per esserne certi ho voluto fare un collaudo. Sono andato al bar Piero e, dopo avergli offerto un bianco di Custoza, ho detto a un mio amico juventino: "Avevi proprio ragione tu, ho realizzato che Ronaldo è più forte di Messi." “Ah, lo vedi!" mi ha risposto lui buttando un'occhiata teatrale ai tavolini intorno, quasi a cercare un minimo pubblico a far da sponda a quella sua vittoria, prima di dare una lunga sorsata al vino nel bicchiere.
Realizzare, con il significato suddetto, è dunque ora parte della lingua italiana, se si usa al bar Piero è segno che ovunque è ormai stato sdoganato, e forse sarebbe il caso che anche i critici letterari se ne facessero una ragione: in Italia, oggigiorno (altra espressione che li manda in bestia), si realizza.
Ma c'erano altre espressioni incluse dai sessantasei critici nel libro nero dei cattivi. Ad esempio la formula a un tratto, oppure i verbi piombò e aggrottò, che una giovane e acuta critica contesta alle scritture contemporanee. Ma perché mai, mi chiedo?
A un tratto è un modo dire neutro e certamente poco espressivo, che, come noto, viene utilizzato quale sinonimo di a un certo momento, o forzandone un poco il significato in luogo di all’improvviso. Ma ci sono molte ragioni – evitare ripetizioni, rime cacofoniche o altro –, per cui un narratore possa prediligere l'uso di a un tratto. Non limiterei insomma la tastiera lessicale senza prima aver contestualizzato l’obiezione, già che nella vita ci sono effettivamente delle cose che accadono a un tratto.
Lo stesso possiamo dire di aggrottare: perché dovremmo negare ai nostri personaggi la possibilità di aggrottare (la fronte, o le ciglia) per mostrare e non dire la perplessità che provano, oppure di piombare dentro qualcosa? Certo, si tratta anche in questo caso di espressioni già sentite e lette mille volte, ma questo la lingua è: mattoncini lego con cui puoi costruire cattedrali o semplici e poco significativi cuboidi, ed è al contrario la forzatura espressiva che può allontanare chi legge dalla storia a favore di una escogitazione intellettuale, più adatta ad altre esperienze di lettura – quella critica, ad esempio.
In narrativa io considero dunque più arrischiato l’utilizzo di termini ricercati e poco frequenti, con cui il lettore ha scarsa consuetudine e possono revocare la famigerata "sospensione dell'incredulità". Certo, mi rendo conto che è una posizione del tutto discrezionale e la questione è tutt’ora aperta. Faulkner, ad esempio, rimproverava a Hemingway di non indurre mai il lettore ad aprire il vocabolario. Ma è questa una critica, mi chiedo, e non invece un plauso?
A non richiesta difesa di Hemingway – per difendersi dallo smilzo Faulkner a lui bastavano i vigorosi pugni di cui andava fiero – viene in aiuto Borges, che suggeriva all’aspirante scrittore di prediligere metafore comuni, che facciano riferimento a esperienze diffuse. E citava quale dimostrazione Omero con il suo “mare color del vino”. Ma va benissimo anche un paragone come bianco come un lenzuolo, che, per quanto consumato dall’utilizzo, non inceppa la lettura e fa sentire immediatamente quel che si vuole esprimere, ad esempio il lenzuolo con cui si ricoprono i morti. Se invece scrivessimo bianco come un Kuvasz, dopo che il lettore avrà aperto il dizionario per capire cosa cavolo sia un Kuvasz, quindi ricevuto i complimenti di Faulkner, non siamo certi che tornerà volentieri al nostro testo…
E invece noi torniamo all'inchiesta dell’Indiscreto. La stessa giovane critica che muoveva agli scrittori italiani l'accusa di sciatteria formale – lo sfondo implicito è l’obiezione neoavanguardistica: la scrittura è linguaggio, il resto conta poco o nulla, le storie, gira e rigira, son sempre quelle –, nella sua risposta abrasiva alla domanda di Santoni utilizzava il termine invero. Basta un piccolo collaudo anche qui, siamo di nuovo al bancone del bar Piero e il barista ha riempito di Custoza i nostri bicchieri ormai vuoti, il tifoso juventino ha voluto ricambiare il giro. “Senti” gli dico io, "invero sei convinto che la Juve vincerà la Coppa dei Campioni?" "Che cazzo hai detto" risponde lui, “inve… che?!”
Il bar Piero sembra dunque confermare che la lingua italiana ha subito un processo di impoverimento impressionante (dagli anni ottanta in poi, volendo individuare la soglia del burrone), per altro già registrato dagli studi del linguista Tullio de Mauro. Ma io non credo che il compito di rimpolpare il linguaggio vada assegnato agli scrittori, e piuttosto alla scuola, alla scrittura saggistica, alla divulgazione culturale e perfino al giornalismo; tutte esperienze di lettura in cui una certa distanza intellettuale dal testo può rivelarsi preziosa, e non ostativa come nel caso della scrittura narrativa. Quest’ultima deve semplicemente lavorare la propria lingua per renderla conforme alla storia che vuole raccontare. Non andrei oltre, non gli chiederei di più.
In una narrazione eccentrica e sperimentale può essere opportuna una lingua espressionista e inusuale, oppure, per contrasto, filtrare una vicenda molto quotidiana attraverso un linguaggio aulico, creando così quegli effetti di spiazzamento che caratterizzano la scrittura di Michele Mari; certo anch’essa mutuata da Joyce, volendogli trovare un antecedente. Ma sarebbe impensabile che in uno dei bei libri di 
UgoCornia qualcuno dicesse invero. No, in quello stralunato mondo letterario nessuno dice e neppure pensa invero. Però lì è consentito alle persone di “aggrottare” la fronte e, “a un tratto”, scoreggiare, prima di “piombare” in un sonno colmo di sogni e di buffe fantasticherie.
Suggerirei dunque ai critici letterari di evitare quella genericità che imputano agli scrittori. È vero, la nostra lingua si è impoverita, standardizzata, gli affluenti dialettali non ne gonfiano più il corso principale, che si dispone a emulazioni estere. Nemmeno si può coltivare l'utopia che la lingua letteraria dia nuovo fondamento a quella nazionale, come è stato, unico caso al mondo, per l'italiano ai suoi esordi. Ora sono infatti altri i mezzi espressivi – cinema, televisione, internet – in cui il presente si riconosce.
E' questo l'ambiente linguistico entro cui si muovono i narratori, che, quando non cerchino l'eternità dei classici (ma la classicità non può essere prescritta, con quell'imperatività che non regge neppure il verbo amare), si rivolgono a chi avrà la bontà di leggerli. Il tutto in un tempo piccino e smarrito, un tempo medio, come le parole in cui si riflette, e mi rendo conto che a guardarsi nello specchio delle parole non sia sempre un bel guardare. Le parole che uso anch'io, le pronuncio con le persone con cui sbicchiero al Bar Piero e, per finire in rima, non dicono mai invero.

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