Nel telefonino, a me la rubrica elettronica nel telefonino,
almeno all'inizio, a me sembrava una grande invenzione:
semplice, tecnologica, svelta e tutto quanto:
ti viene in mente qualcuno e premi un tasto
e scorri un elenco e premi un altro tasto
e dall'altra parte vien fuori il tuo nome,
sopra a un altro telefonino.
Ecco, io pensavo, almeno all'inizio,
che doveva essere così per ognuno.
Ma la mamma, vedo mia mamma
lei continua a ricopiare i numeri su un foglietto
di carta ingiallita, con le righine piccole, da computisteria.
Così quando le vien da chiamare Pincopallino, la mamma
cerca il suo foglio di computisteria nella borsa,
dove ha segnato tutti numeri di telefonino
di tutte le persone che conosce
e anche il gruppo sanguigno, se la investono.
In questo modo, mia mamma, ma solo certe volte,
quando trova il foglietto ingiallito nella borsa,
le è passata anche la voglia di chiamare,
si accorge di non avere mica niente da dire
a Pincopallino, e rimette nella borsa il suo foglietto.
Da alcuni giorni - perché non provare mi sono detto -
ho iniziato a praticare anche io questo sistema:
quando mi vien da telefonare, qualcuno che conosco,
sta nella rubrica elettronica del mio telefonino,
prima cerco un foglietto, un pezzo di carta qualsiasi,
nel portafoglio o in tasca o perfino in terra,
tanto non cambia nulla, è per prendere tempo...
rimandare.
Fino a che, ieri, non incontro uno
- stavamo al supermarket -
uno gentile, mi vede chinato mi dice Cosa stai cercando,
posso darti una mano, lo faccio volentieri?
E guardava anche lui per terra,
sotto gli scaffali, dove ci sta lo shampoo antiforfora
e a me veniva un po' male, mandarlo via così, era uno gentile
doveva essere lì a causa della forfora e insomma
gli rispondo Sì, grazie, sto cercando Sara:
dopo Sabrina e prima di Stefano.
venerdì 13 agosto 2010
giovedì 12 agosto 2010
La cagna di nove anni

martedì 10 agosto 2010
Divagazione patetica che più patetica non si può, o sulla fisica dei solidi

Oggi ho visto la mamma di Franca che non riusciva a salire sopra alla sua bicicletta.
Franca è una mia compagna di scuola delle elementari. Piccola, graziosa, minuta. La mamma di Franca è sempre stata tutto il contrario: un donnone dall'aspetto contadino, direi romagnolo. Anche dal cognome si intuisce che non sono originari di queste parti, ma non saprei bene dove collocarli, né quanti anni potesse avere allora.
Alle elementari le coordinate spazio-temporali sono come fluttuanti, e si precisano solo dentro la presenza di un corpo.
Ginevra aveva capelli lunghi, soffici e luccicanti. Ricordava la protagonista di un carosello che inizia con un cavallo bianco in corsa lungo un fiume, e continua con una famiglia scandinava che lancia sassetti dentro l'acqua. La ragazza del carosello però era bionda, mentre i capelli di Ginevra neri neri, del colore del corvo. Un giorno Ginevra denunciò la maestra per averle strappato una ciocca dei suoi scintillanti capelli corvini, e si presentò a scuola con un taglio a caschetto, alla Caterina Caselli. Non sono certo dell'autenticità dell'episodio, ma l'immagine della maestra che impugna i lunghi capelli di Ginevra e poi la strattona da una parte all'altra della classe, mi sembra possedere qualcosa di familiare.
Sì, familiare come un cavallo bianco in corsa lungo un fiume, mentre una famiglia scandinava lancia sassetti levigati sopra al pelo dell'acqua, rimbalzano e rimbalzano ma non vanno mai a fondo. Restano come sospesi nel tempo.
Oppure è il busto esile e dritto di Giovanni, che spunta appena dallo schienale curvo e sottile, le braccia immobili e composte lungo i fianchi. Uno per uno gli altri compagni lasciano le sedie e si incamminano verso la maestra, che ci attende sulla pedana della cattedra. Qui afferra un lembo dei pantaloni e scruta nelle mutande, esamina, manda assolti con un gesto. Solo Giovanni si rifiuta di alzarsi e raggiungere il luogo dell'ispezione, e già da quello intuiamo che deve esserci un qualche rapporto tra lui e l'odore che da qualche minuto ha iniziato a diffondersi in classe, sempre più intenso e penetrante.
Farsi la cacca addosso, già, in seconda elementare.
E poi la gioia feroce di essere riconosciuti innocenti e quindi meritevoli - inizio a ridere insieme agli altri, a schernirlo e a dargli del puzzone smerdolone - mentre da sotto la montatura pesante dei suoi occhiali in celluloide spillano i primi goccioloni. Ma lui continua a rimanere immobile, con una lava marroncina che spunta e cola dalla seduta in faggio chiaro, discende i tubolari in ferro della sedia.
Un totem, un vulcano senza sonoro. Questo è Giovanni. Da cui dolcemente eruttano lacrime e merda, merda e lacrime silenziose.
Di Corrado rimane la minuscola cicatrice di quando mi morse un avambraccio. Stavamo al doposcuola, fino alle quattro e mezzo del pomeriggio tutti i giorni, tranne il sabato e il mercoledì, poi iniziava Zorro in tv. Un Pitbull che non molla la presa, in tre cercavano a turno di staccare Corrado dal mio avambraccio, di aprirgli le mascelle con un righello o un compasso. Dovette arrivare il bidello, che mi liberò come l'amo dalla trota. I miei genitori, con prudenza e una sottile aristocratica vena di razzismo - le condizioni igieniche in cui viveva la famiglia di Corrado apparivano quantomeno dubbie -, mi costrinsero a seguirli poi al pronto soccorso, per l'iniezione antitetanica.
L'unica differenza tra Zorro e il carosello di Ginevra è che Zorro aveva un cavallo nero. Mentre Corrado, lo chiamavamo Calimero.
Isacco invece era sempre l'ultimo a terminare il compito. Chi prima chi dopo, consegnava il suo foglio dove Pierino ha cinque mele, ne mangia due, quante ne rimangono? Cose così, lieve brezza per i neuroni. Ma evidentemente non per Isacco. Che dopo svariati minuti di penosa concentrazione iniziava a sudare, a sbuffare, ad ansimare. Infine, rassegnato ma non per questo meno rabbioso con se stesso, ribaltava in terra il suo banco di formica verdina, esibendo il vasto firmamento delle cicche appese là sotto.
Un' eredità calcinata e rosa pallido, quella che Isacco ci rivelava, appartenuta a chissà quali precedenti scolaresche. Che ci passavano le loro deiezioni alimentari come il testimone dell'atleta nella staffetta.
E poi l'abito di Silvia una mattina di carnevale. Un vestito lungo e azzurro e ricamato, da damina incipriata alla corte del re Sole, con la sottoveste in pizzo e un'anima conica di metallo a sostenere il tutto. Ricordava la struttura della gondola lariana dei Promessi sposi (l'immagine era presente nell'abecedario alla voce B di barca), ma il viso era quello ovale e splendido di una piccola matrioska, più bella di Orietta Berti. E vederla così, per la prima volta senza l'offesa di una pecetta bianca incollata all'interno di una lente, che gli oculisti in quel tempo amavano infliggere ai bambini.
Corpi, sì, solo questo. Corpi da vedere e da annusare.
Come quello della mamma di Franca, che oggi non riusciva a salire sulla sua bicicletta. Non la incontravo da anni, di lei solo il ricordo di quando raggiungevo la figlia per i compiti e invece di una Brioss ci offriva un caco arancione e sfatto, nelle interminabili merende. Franca invece non l'ho più vista, ma mi diceva un altro compagno - Claudio, i capelli ancora tutti neri e conficcati sul cranio minuscolo e appuntito - che Franca, 43 anni, è già diventata nonna. La mamma di Franca è dunque la bisnonna. Ci prova e ci riprova, alla maniera di chi tolga le rotelle alla Graziella per la prima volta, ma il corpo pesante e vecchio viene ogni volta reclamato dalla terra.
Non come i sassetti della famiglia scandinava, che stanno ancora adesso rimbalzando, il cavallo bianco correndo a briglia sciolta sul bagnasciuga, senza nessuna forza di gravità, nessuna divinità marina o ctonia a ricordare che il prestito è scaduto.
La cosa veramente strana, allora, non è vedere i tuoi genitori invecchiare prima di sprofondare con un ciuf. A quello ti abitui giorno per giorno, il peggio viene dilazionato nello specchio dell'abitudine. Strano e doloroso è incontrare i genitori dei tuoi compagni di scuola delle elementari, ma non sapere infine cosa dire, se ti hanno riconosciuto anche con i capelli diradati, la mimetica da mercenario vezzoso, mentre loro stanno arrancando verso la vetta di un sellino. Né se abbia senso un gesto, una mano.
Ed è ancora il fermo immagine di Giovanni, caro Giovanni, il suo imperturbabile monumento di merda e lacrime, a venirmi in aiuto. Perdonami Giovanni, ci ho messo trentasette anni a capire che l'arguzia non è la migliore tra le virtù, né tutti i luoghi comuni sono stupidi e superficiali. Ad esempio quello che dice cacca di bimbo cacca di angelo, e tu avevi solo perso qualche piuma...
L'altro un po' meno
L'autista di quel furgone ha un braccio abbronzato
e l'altro un po' meno, tutti giorni fa consegne
suona al mio citofono, mi dice Prego scenda
ho un pacco per lei deve firmare il bollettino
dice l'autista di quel furgone parcheggiato
in seconda fila, e io scendo immediatamente.
La lieve incrinatura nel tempo quotidiano
che trasforma in dono ciò che da mesi era atteso
ma non meno sorprendente, come una promessa
mantenuta malgrado il tempo, che non è mai
quotidiano. O forse è il presente, somiglia un poco
all'autista di quel furgone che mi fa cenno
con la mano come dire Sei tu? Finalmente
non sai da quanto ti cerco, vengo da lontano.
E lo si vede proprio che il braccio è più abbronzato
al sole tiepido in aprile dal finestrino
l'altro un po' meno, mi dice firmi il bollettino.
e l'altro un po' meno, tutti giorni fa consegne
suona al mio citofono, mi dice Prego scenda
ho un pacco per lei deve firmare il bollettino
dice l'autista di quel furgone parcheggiato
in seconda fila, e io scendo immediatamente.
La lieve incrinatura nel tempo quotidiano
che trasforma in dono ciò che da mesi era atteso
ma non meno sorprendente, come una promessa
mantenuta malgrado il tempo, che non è mai
quotidiano. O forse è il presente, somiglia un poco
all'autista di quel furgone che mi fa cenno
con la mano come dire Sei tu? Finalmente
non sai da quanto ti cerco, vengo da lontano.
E lo si vede proprio che il braccio è più abbronzato
al sole tiepido in aprile dal finestrino
l'altro un po' meno, mi dice firmi il bollettino.
venerdì 6 agosto 2010
Carburatori, pistole, cartelle maculate & torta di mele (dimenticavo: orzata)

Sfogliando un forum di discussione su internet, scopro che una mia amica, scrivendo pubblicamente a una conoscente comune, la chiama tesoro. Non avrei mai detto che questa mia amica utilizzasse l'espressione tesoro. In genere la usano gli omosessuali, anzi i gay, anzi le checche oppure le donne nelle commedie americane degli anni cinquanta, la traduzione italiana per darling. Nei film recenti credo si siano invece messi a tradurre darling con cara, se non sono gli americani stessi che ora dicono dear, non so, ma davvero non me l'aspettavo che la mia amica avesse questa espressione tra le sue corde.
O forse, più che nelle corde, un'espressione sta tra le gambe delle persone, come per gli sportivi. Ci sono quelli che hanno nelle gambe i cento metri in meno di undici secondi. Magari non li faranno mai, resteranno tutta la vita sprofondati dentro un divano a sgranocchiare pop corn e a guardare Elisir in televisione e poi la moviola, la domenica sera, e però continueranno ad averceli tra le gambe: i cento metri in meno di undici secondi, come Mennea che a vederlo non l'avresti detto mai.
Dopo che mi sono imbattuto in questo forum di discussione su internet, ho iniziato a pensare che la mia amica aveva tra le gambe l'espressione tesoro anche tutte le volte che siamo usciti assieme: all'Excelsior per un film, l'unico film che si può vedere qui; il miglior margarita al Jom Bar di Tresivio; Morbegno la sera a camminare e a bere acqua fresca con l'orzata, parlando di libri nel senso di come si impilano ed espongono, si catalogano in una grande libreria. Ecco, tutte quelle volte lì a me è venuto il dubbio che lei sotto sotto pensasse la parola tesoro, come gli omosessuali, anzi i gay, anzi le checche oppure le donne dentro i film americani degli anni cinquanta, quando vanno incontro al marito sullo zerbino con la scritta welcome e gli annunciano radiose che la torta di mele è venuta uno splendore: "a shining apple cake", chissà se dicevano così...
Tesoro però lo dicevano di sicuro, e anche la mia amica, l'ha perfino scritto, in un forum di discussione su internet.
Il grande scrittore tedesco Uwe Johnson ci ha lasciato dei libri bellissimi, come Schizzo per un infortunato. Anche il protagonista del libro è uno scrittore tedesco, riuscito a sfuggire negli Stati Uniti dalla Germania nazista, dove ha poi ucciso la moglie per averne scoperto il tradimento con un politico fascista. Nella realtà, non so se Uwe Johnsonne ne fosse già al corrente scrivendo il suo racconto, ma la sua stessa moglie aveva una relazione con un funzionario dei servizi segreti della DDR, a cui spediva delle informative che riguardavano la vita privata del marito, sorvegliato per tutti i lunghi anni del suo soggiorno americano.
Ogni cosa è diversa da come sembra nei libri e nella vita di Uwe Johnson. Tua moglie, la donna che ti aiuta a mettere un cerotto quando inciampi in quel maledetto foruncolino facendoti la barba, ti spia e tradisce con il peggior nemico, gli affetti si tramutano in conflitti. Ma i conflitti non esplodono mai e restano sopiti, inespressi, come i centro metri tra le gambe mentre guardi Elisir in televisione, pescando dentro un sacchetto gonfio e unto di pop corn.
Walter Guastaldi invece era uno che non te le mandava a dire. Una volta, in terza media, l'ho visto estrarre una pistola da una cartella ricoperta con il pelo maculato di un'animale e puntarla in fronte a uno che il giorno prima gli aveva pestato un piede o detto qualcosa di sbagliato. Era la prima volta che tutti noi ci trovavamo davanti una pistola vera, ma la scena non ci impressionò davvero più di tanto. Se uno il giorno prima uno ti pesta un piede o dice qualcosa di sbagliato, è normale che il giorno dopo gli punti una pistola tra il naso rosso per il raffreddore e l'attaccatura bassa dei capelli. In televisione funziona così, non sto parlando di Elisir.
Poi suonò la campanella e rientrammo in classe al termine dell'intervallo. Anche quello con l'attaccatura bassa dei capelli, fortunatamente ancora vivo e col suo bel nasone rosso, cercando di non starnutire mentre camminava trascinando i piedi al fianco di Walter Guastaldi, attento a non ripestarglieli. Lui al primo trillo si era affrettato a riporre con cura la sua pistola tra il pelo bianco e marroncino forse un giorno appartenuto a un cavallo, o a una capretta sardo-maltese.
Adesso Walter Guastaldi fa il meccanico, è sempre alto ma non è più magro magro, i capelli completamente ingrigiti e sottili baffetti da giocatore di bocce francese, carezzati con soddisfazione dopo un boccia-punto millimetrico in un vicolo acciottolato di Marsiglia. Anche in terza media Walter Guastaldi faceva il meccanico, entrava in aula con le mani orgogliosamente adornate dall'alone di grasso di un carburatore difettoso, ma l'officina era del padre e lui lo aiutava soltanto; almeno quando non era occupato a puntare una pistola in fronte a qualcuno. Le volte in cui l'Opel Corsa di mia mamma perde colpi, lei dice non portarla alla Opel, quelli non capiscono niente, ci prendono i soldi. Portala da Walter che è uno onesto e svelto e insomma è un bravo meccanico. Questo pensa mia madre di Walter Guastaldi, e lo penso anche io.
L'officina si trova poco prima del ponte sull'Adda andando da Sondrio verso Albosaggia, a ridosso di un enorme pornoshop. Quando ci vado, in officina, non nel pornoshop, lui mi riconosce immediatamente dall'automobile, e mi dice ciao caro. Appena apro la portiera e gli vado incontro per stringergli il dito mignolo sollevato come per vedere se c'è vento - i meccanici non ti danno mai la mano, questa è la prima regola - lui mi dice sempre e solo così: Ciao caro. Che a me quando un uomo ti dice ciao caro, non so perché, ma di più quando me lo dice uno che in terza media arrivava a scuola con una pistola nella cartella di pelo maculato marrone e nero e bianco, a me viene un po' da ridere. Ma un ridere bello, che mi lascia contento anche dopo.
Invece se uno mi dicesse tesoro non credo che sarei tanto contento. Lo dicono gli omosessuali, anzi i gay, anzi le checche oltre alle donne nelle commedie americane degli anni cinquanta. Ma lo scrive anche la mia amica su internet. Ricordo che quando le ho offerto un bicchiere d'orzata nella veranda di un piccolo baretto di Morbegno, era la prima volta che assaggiava quella bevanda. Ecco, un'altra di quelle cose, non ho mai capito bene il motivo, ma sei contento quando sei tu a far scoprire a qualcuno a cui tieni una cosa che a te appare come un prezioso segreto. E l'orzata è certamente una cosa preziosa, forse non segreta ma buona, e perfino bella: se ti trovassi a giocare bocce insieme a Walter Guastaldi per un vicolo di Marsiglia, potresti scambiarla per un pastis.
Eppure un'orzata non è un pastis, una moglie non è un'agente segreto che ti spia mentre fai la barba, un'amica non dovrebbe usare espressioni come tesoro e un meccanico salutarti con ciao caro, a distanza di trent'anni da quando l'hai visto puntare una pistola in fronte a un tuo compagno di pallamano. Così, più ci giro intorno, e più un finale a questa storia davvero non riesco a trovarlo. Ma tutto ciò mi procura una strana e misteriosa confusione, uno stordimento che diventa il principio di una serenità sommessa. La quale sfoca e mescola i pensieri come lo sciroppo d'orzata, quando affonda e si disperde dolcemente in un bel bicchiere di acqua fresca.
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giovedì 5 agosto 2010
Il Bar vecchio e il Bar nuovo

Il Bar vecchio sotto casa mia l'hanno comprato anche quello i cinesi. Ora mia mamma lo chiama Bar nuovo, ma al pomeriggio ci stanno sempre i pensionati che giocano a briscola, le carte unte e ingiallite, con in palio il giro dei frizzanti corretti Aperol o per i più ostinati Campari. La rivincita a scopa.
La sera, però, già a partire dal tardo pomeriggio, da quando il Bar vecchio è diventato il Bar nuovo sono arrivati anche gruppi di giovani marocchini, giovani albanesi, giovani macedoni e giovani "dei nostri", come si dice da queste parti. Più che altro, giovani.
Mia mamma pensa che sia per via della cameriera del Bar nuovo: è piccola, graziosa, gentile e con un sorriso largo e contagioso, che scatta come il braccio del Big Jim quando viene pigiato il tasto nascosto sulla schiena.
In questo caso, il sorriso della cameriera del Bar nuovo scatta quando vede qualsiasi cosa che si muove. Lei sorride. Automaticamente. Pavlovianamente. Come se avesse solamente due opzioni espressive: sorriso on \ sorriso off.
Alcune sere fa sono entrato al Bar nuovo per acquistare una bottiglietta di acqua minerale, da sorseggiare durante un viaggio in automobile fino a Milano. Appena ho attraversato la porta di ingresso è partito il braccio del Big Jim, e la cameriera del Bar nuovo mi ha offerto uno dei sorrisi più sorridenti che, giuro, mi ha fatto mai uno "dei nostri", come dicono da queste parti.
"Desidero una mezza minerale da portar via" ho detto subito io. "Non gasata, per piacere".
"Come ti chiami?" mi ha risposto la cameriera del Bar nuovo, un po' parlando e un po' sorridendo: on, off, on, off...
"Mi chiamo Guido" le ho detto ricambiando con poca convinzione il sorriso. "E tu, posso sapere anche il tuo nome?"
Mi ha risposto con un suono quasi immediatamente scordato, ma sono certo che non fosse un nome cinese. Ci ripenso mentre pago la bottiglietta di acqua Levissima, non gasata, tra me e me penso che quel nome subito infilato nel cestino dei pensieri pareva quasi un nome d'arte, da spogliarellista; ma non lo dico a mia Mamma che se no poi pensa le cose strane, chissà...
Il giorno dopo, rientrato a notte tarda da Milano, sono ripassato di fronte al Bar nuovo, che sta sotto a una pensilina rovente e affiancato da molti negozi evidentemente poco appetibili, alcuni dei quali con un cartello affittasi esposto da mesi. Al termine della pensilina ci sta l'edicola dove prendo tutti i giorni la Repubblica, Zagor Te-Nay una volta al mese e a cadenza settimanale i dvd di filosofia del Corriere; mia mamma dice che è perché ho smesso l'università e non mi va ancora giù.
Mentre superavo l'ingresso spalancato del Bar nuovo, ho sentito una voce, da dentro, ormai avevo già oltrepassato la porta, che gridava:
"Ciao Guidooooo..."
Torno indietro di pochi passi e infilo la testa dentro. Ci stanno i pensionati che giocano a briscola, la rivincita a scopa, frizzante Aperol Campari tutto in regola; un giovane albanese infila qualche euro nella slot machine, mentre con l'altra mano impugna una lattina stretta e alta, credo sia una bevanda energizzante, il braccio molle lungo il fianco; la proprietaria di un negozio di scarpe all'angolo della pensilina tiene una sigaretta spenta tra le dita, ordina due caffè, di cui uno macchiato, e conversa con una conoscente facendo finta di litigare per chi paga, la sigaretta spenta brandita come un pugnale. Infine c'è il sorriso della cameriera del Bar nuovo nella modalità on, il braccio del Big Jim che cala il suo colpo di karate con la certezza che nessun legno può resistervi, prima di tornare provvisoriamente in posizione off e ripetere piano:
"Ciao, Guido".
"Guido"rispondo io, "ti ricordi il mio nome?"
"Certo, io ricordo tutti i nomi".
"Puoi ripetermi allora per gentilezza il tuo?", e a quel punto ho già raggiunto il bancone, le sono di fronte separato solo dalla parata di bustine dolcificanti: zucchero normale, di canna, al fruttosio e ora anche piccole buste colme di miele d'acacia, per i più snob.
"Milou, io mi chiamo Milou. E' Un nome francese", dice lei.
"Francese, sì, certo. Come il titolo di quel film: Milou a maggio, lo conosci?"
Mi sorride. Non capisco se stia per un sì oppure per un no. O forse è un modo per dire che non le importa, tutto quello che sta fuori l'istante in cui stiamo respirando le appare come ridondate. E qui e ora ci stanno solamente due persone che un po' respirano un po' parlano un po' sorridono, e i loro nomi come sospesi sullo zucchero.
Milou.
Guido.
"Ora devo andare, ti auguro una buona giornata Milou", aggiungo dopo il suo lungo silenzio sorridente.
"Buon giorno a te, Guido."
Mi avvio lungo la pensilina rovente, alle spalle il tintinnio delle monete del giovane albanese che ha finalmente vinto qualcosa, le vetrine con i cartelli affittasi e il dvd di filosofia che mi attende incelofanato all'edicola; oggi dovremmo essere arrivati a Kant: il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro me.
Ma in fondo basterebbe forse anche meno, penso mentre la proprietaria del negozio di scarpe continua a fingere di bisticciare con l'amica - la-prossima-volta-pago-io-non-si-discute! -, e uscita dal locale può finalmente accendere la sua sigaretta. Basterebbe che i "nostri", tra noi, insomma, come si dice da queste parti e anche senza sorridere, basterebbe provare a chiamarci ogni tanto per nome.
E poi respirare.
mercoledì 4 agosto 2010
Profondità, superficialità... provando a fare un po' di ordine

Ok, vada per la profondità. Quelli che, come il grande critico e saggista francese George Steiner, quando parlano di filosofia lo fanno in greco o in tedesco; discutono di teologia patristica in latino; citano in italiano interi lunghi passi dell'opera cantata; ma per i discorsi di cucina naturalmente il francese, e l'inglese per tutto ciò che viene dopo la seconda guerra mondiale. Ecco, verso questo tipo di profondità provo una normale ammirazione, anche se mi incute un poco di timore.
Mi è diversamente ostile la superficialità di tutto quanto si avvicini a Simona Ventura. Quello è il mio barometro semantico, più sento odore di Simona Ventura e dei suoi amici stilisti, manager automobilistici, calciatori e per non dire degli stacchetti danzanti e i gridolini compiaciuti, la prosopopea dell'indignazione facile col ditino alzato, più effettivamente non trovo altro termine per definirla: superficialità.
Eppure ho l'impressione che questi termini polari - profondità \ superficialità - non corrispondano ai tratti dominanti di questo tempo, che più spesso si assestano su forme sfumate e ad essi intermedie. Bisognerebbe trovare allora dei termini più appropriati, più autentici.
Esiste ad esempio una particolare forma di superficialità che consiste nel navigare a vista, prestando attenzione alle mutevoli condizioni del mare, alla forma esatta e sempre diversa dell'onda, il suo frangersi disuguale. Persone, cioè, che pur essendo sprovviste di una cultura enciclopedica, mantengono vivo l'interesse e l'attenzione verso il dettaglio, ascoltano quel che gli viene detto ed è piacevole ascoltare. Verso questa vigile attitudine per le superfici dell'accadere, ipotizzo un termine diverso, un sostantivo più appropriato.
Chiamiamola provvisoriamente "superficiosità".
A tale atteggiamento di serietà fenomenica, è accomunabile, per contrasto, la profondità di chi affastelli semplicemente immersioni nei saperi, ma si distingue dal nozionismo per una postura riflessiva, discriminatoria e compiaciuta. Una sorta di seriosità noumenica, diciamo così.
E siamo giunti al cospetto di una presunta élite del pensiero. Alcuni hanno voluto chiamarla "radical chic", ma è un termine ugualmente limitato, riferendosi a una cultura settaria esclusivamente di sinistra. Io lo trovo invece un atteggiamento universale dell'umano, che fa della pensosità corrucciata la propria griffe di appartenenza. Una boutique affollata dove incontriamo la vocazione ad entrare nella dimensione sommersa degli eventi, scandagliando le componenti non manifeste dell'iceberg, le cause prima degli effetti. Il problema è che a molte di queste persone manca un vero talento d'apnea, e, a differenza del buon George Steiner con i suoi molti e profondissimi idiomi, si limitano agli elementi estetici del conoscere.
Come se Celentano desse lezioni d'inglese attraverso il testo della sua canzone Prisenensicolanciusol.
Ecco, questo atteggiamento del pensiero, più che al pensiero stesso si riferisce all'induzione ipnotica di un suono, o meglio ancora alla colonna sonora del pensare. Abbiamo così diversi stili musicali del pensiero profondo, che forse anche in questo caso dovremmo battezzare in modo alternativo alla profondità.
Può andare, "profonditudine"?
E' ad esempio un segnale inequivocabile di profonditudine quello di chi entri in libreria e chieda l'ultimo libro uscito dell'editore Adelphi; un editore che ha fatto della profonditudine un suo stemma fulgido di riconoscimento. Ma esiste anche una profonditudine Feltrinelli o Einaudi o per non parlare di certi lettori del Manifesto, che si avvicina in effetti alla categoria già incontrata del radical chic.
In linea più generale, potremmo riconoscere nella profonditudine l'atteggiamento di chi voglia ricollocare immediatamente l'esperienza dentro categorie già preformate; e attraverso le stesse categorie, emulare il gesto anticonvenzionale di chi si sottragga alla corrività dei pensieri superficiali, da esso biasimati come il male peggiore.
Il finto profondo, o "profondituto", è così in buona sostanza un superficiale, ma di secondo grado. Una persona mediamente scolarizzata, aggiornata, perfino arguta e rapida nel cogliere l'andazzo generale. Qualcuno però che ha la necessità di un navigatore satellitare di ultimo modello, preimpostato dalla tribù sociale d'appartenenza. Con le cartine ben dettagliate, può così avventurarsi lungo le rotte battute dell'ovvio, sollazzarsi alle rotonde del banale.
A questo livello ci imbattiamo in un'illuminante convergenza con una nozione più volte incontrata in questo blog, quella di kitsch. Come già abbiamo avuto modo di definirlo, il kitsch rappresenta infatti un’adesione enfatica, ma depurata da ogni elemento di problematicità o di sforzo interpretativo, ad un modello alto e riconosciuto, a cui si accordi un consenso preventivo.
O detta in forma più icastica, con le parole di Abraham Moles: “il kitsch è l’eccesso nella mediocrità”.
Provando dunque a ricapitolare. Abbiamo alcune persone, autenticamente colte e curiose, che utilizzano gli strumenti del sapere per entrare nel profondo delle cose. Per loro la cultura corrisponde alla zavorra del sub: li aiuta a penetrare negli abissi opachi del mondo, a cui aspirano per genuino desiderio di conoscenza.
Quegli stessi saperi, per altri, si traducono invece in uno scafandro, che dopo averli accompagnati in profondità lì anche infine li trattiene, come prigionieri dei troppi libri letti. Una condizione simile a quella descritta da Platone nel mito della caverna: si guardano in giro pensando che siano quelli i fondali marini, ma si tratta invece della tappezzeria dello scafandro. Sempre più chiusa, opprimente. Ma soprattutto senza la sferzata di una ventata fresca e vivificante di ossigeno.
Abbiamo quindi i veri superficiali, su cui non è nemmeno il caso di ritornare. Sono superficiali e basta, dicono cose superficiali, balbettano la loro esistenza dentro una lingua semplificata ed imitativa, che ricavano dalla figure prevalenti del consenso e dello svago. Ma di questa esistenza piccina piccina, in fondo, si accontentano.
La palma della mia simpatia va infine ai "superficiosi". Uomini e donne che sembrano trascurare gli abissi del pensiero, la concentrazione intellettuale. Eppure sono tutto all'opposto che superficiali. Non si affidano infatti a uno dottrina estrinseca o imposta, ma provano a guardare le cose negli occhi di volta in volta. Sì, stanno in superficie. Ma solo perché hanno compreso che nel finale del Piccolo principe si annida un luogo comune pericoloso, di quelli che piacciano tanto alle persone che si stimano profonde.
Loro sanno che l'essenziale è invece ben visibile agli occhi. E come Spinoza confidano nei saperi artigianali, nell'arte sottile dell'ottico. Quindi semplicemente provano a mettere a fuoco.
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Un corpo è un corpo è un corpo, o su come lo sguardo mette alla porta l'altro

Nella savana di Facebook, da qualche tempo mi sono accorto del diffondersi di una nuova specie. Si tratta di un'abitudine, femminile in particolare, che riguarda donne che in molti casi considero e ammiro, e di cui seguo il lavoro quando me ne capita l'occasione. Coinvolge infatti scrittrici, poetesse, intellettuali. Donne dai molti e articolati interessi, ma soprattutto di buone parole.
Qui però invece di parlare, di scrivere come sanno fare - e lo sanno fare bene, appunto - hanno cominciato a mostrarsi, a fotografare i minuti dettagli del loro corpo. C'è come un'ossessione centripeta in questi scatti, un'introversione dello sguardo che seziona il "condominio di carne" di cui sono provvisorie inquiline, per usare una bella espressione di Valerio Magrelli, con una perizia analitica che lascia spesso sorpresi. Ma che non può non indurre a un confronto con narratrici altrettanto grandi del passato.
Emily Dickinson, ad esempio. Immaginarsi Emily Dickinson mentre si fotografa un piede, un ginocchio, la curva del collo o quella leggera di un seno. Eppure anche Emily Dickinson ha trascorso l'intera e reclusa esistenza a studiarsi, ad analizzare il suo corpo minuto e pallido nelle infinite possibilità di senso.
Possibilità, a me sembra dunque questa la parola chiave. E significato.
Emily Dickinson ma anche Sylvia Plath, Elsa Morante, Flannery O'Connor, Cristina Campo, Karen Blixen, Marguerite Duras... Nella prosa femminile delle maggiori artiste del secolo passato, la ricognizione letteraria si dava spesso come tentativo di comprendere le possibilità del corpo; possibilità di sottrarsi al puro dato sensibile, per coniugarsi in una relazione significativa.
Perfino nella furia collettiva e personale di eventi drammatici, Anna Frank non si scorda mai del corpo - del "suo" corpo - e ne scruta le metamorfosi nel particolare. Ma anche qui, il pronome possessivo ha la necessità di essere incorniciato dalle virgolette. E infatti da qualche parte, sotto altri cieli o bombardieri della Luftwaffe, è sempre presente un corpo diverso, il fantasma di un innamorato o semplicemente di un altro, che restituisca al corpo il potere di semiosi.
Eraclito sosteneva che il fulmine governa ogni cosa, ed è come se questa diversa polarità della carne avesse il potere di suscitare la scintilla, originare il flusso del racconto. Se non ci fosse un altro, implicato nella grande letteratura femminile, il corpo resterebbe muto, crogiolo organico ma privo di radianza espressiva. Un enigma geometrico per lo sguardo, il contenitore vuoto ma per saturazione del contenuto, o viceversa.
Enigmaticità intransitiva di cui si caricano invece le fotografie dei corpi su Facebook. Le giovani e brave artiste che espongono qui i loro scatti, sembrano interessate alla ricognizione di un pre-testo fisiologico, una grammatica dei tessuti intesa forse come occulta morfogenesi dell'identità verbale, più che allo sviluppo di una fabula erotica e sensuale. O comunque dedite a una biografia assoluta - ciò che succede quando non succede nulla, o almeno nulla che mi tocchi in ciò che mi è proprio e proprio mio - di cui l'immagine è lo strumento privilegiato, indiscutibile nella sua inesplicabile flagranza.
Il loro corpo è così davvero e finalmente loro. Racchiuso, conchiuso, spesso raffigurato in posizione fetale, o nell'articolarsi di una specularità senza sbocco. Un femminile che prescinde da ogni confronto polare, antropologico, storico e politico. Tanto che ai confini dell'immagine è come se fosse presente un cartello con la dicitura: NON TOCCARE, ACHTUNG, PERICOLO!
Una volta si poteva magari semplificare pensando che l'uomo fosse “storia”, mentre la donna “geografia”. Dall'unione di storia e geografia scoccava la vampa del fulmine, e i carretti colmi di pomodori e zucchine cominciavano a trascorrere lenti e cigolanti sopra ai ponti, qualcuno faceva ciao ciao con un fazzoletto bianco dal finestrino di un treno, o dalla poppavia di un traghetto nello sbuffare nero e pesante del fumo Ora invece rimangono questi corpi inviolabili e condensati, come il riccio quando incontra la volpe. La muta interrogazione delle donne allo specchio della comunicazione globale e istantanea.
Mentre il cielo, là sopra, appare sempre più blu. Temporali all'orizzonte nemmeno l'ombra.
(L'immagine è della fotografa statunitense Francesca Woodman)
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Sussunzioni

In una fase in cui i rapporti con gli altri - uomini, donne, familiari, politici, internauti, automobilisti, zanzare, ex colleghi di lavoro ed ex amici - sono all'insegna del più completo disincanto, per non dire di una delusione vera e profonda con cui è forte la tentazione di sussumere la categoria generale dell'umano, l'essermi per caso imbattuto in questa video-intervista a Michel Bitbol mi ha almeno un poco rincuorato. Non è l'umanità a fare schifo, ma la mia vita.
venerdì 30 luglio 2010
Eutanasia della corrida, o sulla differenza tra mito e folclore

La Catalogna abolisce la corrida per decreto parlamentare. E' noto, se ne è parlato diffusamente nei giorni scorsi. Ma forse non è ancora propriamente una notizia. Per esserlo, per configurarsi quale notizia, un avvenimento deve infatti sovvertire un ordine atteso. Il cane che morde il bambino non è un notizia, il bambino che morde il cane invece lo è. O se vogliamo utilizzare una diversa metafora, perché si compia un omicidio la vittima deve essere, se non proprio in buona e robusta costituzione, almeno viva. Non è contemplato l'omicidio di un cadavere.
Sorvolando sui numerosi commenti letti, alcuni certo interessanti come quello dello scrittore andaluso Antonio Muñoz Molina, una buona domanda a me pare quella di chi si interroghi sulla linea encefalografica della corrida; prima che il parlamento catalano ne staccasse definitivamente la spina, intendo.
La mia idea è che la corrida fosse in coma già da diversi decenni, o comunque estranea a quel tessuto sottile ma tenace su cui si sviluppano i ricami della Spagna post franchista. Riferendosi invece a un ordine sociale, un sistema di segni ed emozioni profonde, la cui struttura è da riferirsi a un'organizzazione umana precedente. Costituita dal riverbero di simboli antichi dentro un crogiolo di passioni, regole d'onore, stati d'animo collettivi che senza timore potremmo classificare come premoderni e mitici.
Ma sarebbe forse utile chiarire meglio anche quest'ultimo termine, il mito alla cui tavola banchettavano gli dei. Euripide, in una celebre sentenza, afferma che “gli dei sono in tutte le cose.” E diversi secoli dopo Agostino risponde che la verità si ritrova all'interno dell'uomo: “in interiore homine stat veritas”.
Questa corrispondenza tra interno, o se preferiamo anima, coscienza, psiche e l'esterno fluttuante delle cose del mondo, è propriamente la mitologia, con il rituale che ha funzione di spoletta di raccordo. Un'arte analogica dunque, il gioco sottile di richiami tra dentro e fuori, tra fantasmi della mente e lenzuola che si gonfiano ai sospiri di un carrugio.
Se prendiamo per buona l'interpretazione genericamente ispirata alla prospettiva analitica junghiana, vediamo così come ogni rappresentazione mitica si allontani dall'idea moderna di intrattenimento, che diversamente si associa al concetto di distrazione, svagato congedo dalla propria interiorità. Nel mito invece tutto si addensa, il fuori rimanda al dentro, sempre più all'interno, concentrato. Fino a che l'anima, al culmine di questo spasmo introverso, non viene come sbalzata in un territorio senza più coordinate certe, ma proprio per ciò tanto più autentico e familiare.
Potremmo anche trovare nell'esperienza mitica una corrispondenza con il precetto evangelico per cui ci si deve perdere per potersi ritrovare. Ed è esattamente quanto doveva avvenire nel pubblico catalano durante l'esibizione della corrida, almeno fino a quando Hemingway ci arrivava dopo il consueto giro di aperitivi. Ritrovare la via di casa in un intrico di simboli sessuali, arcaici, primitivi. Con un Teseo\Apollo nella veste del torero che, nell'esattezza affilata della forma, cerca di contenere e poi sconfiggere il proprio drago, infilzare il Minotauro\Dioniso incarnato nella vitalità irredenta di un toro. Il quale - ecco perché deve essere infine ucciso - ha una funzione sovversiva dentro l'ordine patriarcale del discorso civile.
Ma poi?
Ma poi più niente. Non so quando questo sia accaduto, né perché, ma tutti i commentatori sono concordi nell'affermare che lo spettacolo tradizionale delle cinque della sera, già da molto tempo a questa parte, ha cessato di smuovere sensazioni dentro le viscere degli spagnoli, prima ancora che nella loro testa. Non che nessuno assista alla corrida, però. Viene ancora seguita, allo stesso modo in cui il vecchio cane segue l'ombra del padrone defunto, a cui rimane fedele in altri e più svelti passi. La corrida ha smesso semplicemente di accadere.
In altri termini, l'essenza mitica e palpitante contenuta nel preciso rituale della tauromachia si è come ritirata, lasciando sulla spiaggia l'orma della sua sola struttura, che ha così finito con l'ossidarsi in stereotipo. Abbiamo a questo modo un evento originalmente vitale e profondo ridotto al suo sfinito simulacro, un cavallo di legno da cui tutti i guerrieri sono sgusciati fuori la notte. Ma invece che dar fuoco alla città, violentare le pallide vergini frementi, ora si trovano a piluccare hamburger e patatine fritte, in un bar con la televisione accesa.
E tutto ciò ha un nome ben preciso: folclore.
Il folclore è infatti il contenitore, l'involucro di un evento carico di profonde risonanze umane, psicologiche, simboliche e culturali, ma al netto della sostanza per cui la forma ha preso quell'aspetto. Insomma, il folclore ha una funzione unicamente ornamentale, e pertanto allontana dall'interiorità - distrae - almeno quanto l'esperienza mitica concentrava e rendeva prossimi a sé, sperdeva per ritrovare.
Il punto davvero interessante a me appare proprio questo. Se una rappresentazione a sfondo mitico, come appunto la corrida, ci conduceva in uno stato mentale in cui potevamo avere un'esperienza intima e profonda di noi stessi, per quanto in forme allusive e prerazionali e perfino crudeli, nel folclore abbiamo un esito del tutto ribaltato. Ma se capovolgiamo la verità otteniamo l'inautentico, e cioè una logora finzione programmata ad uso turistico; quando si sa che il turista, al contrario del viaggiatore, non desidera esporsi al vento dell'esperienza ma un semplice ventaglio colorato, che ne confermi le aspettative indotte. E così la corrida, che da uragano mitologico si era ridotta allo sbuffo regolare - e regolato - di un ventilatore elettrico.
Una barca a vela che nasconde il ronzio di un'elica, meglio, nello spossato afflosciarsi delle vele.
Trascurando provvisoriamente tutte le ragioni legate al rispetto degli animali e alla loro sofferenza - ragioni benemerite, attenzione, per quanto ipocritamente agite solo in direzioni particolari - e allo sfondo politico del decreto catalano, che anche in questo modo ha voluto affermare una propria distinzione dalla centralità repubblicana percepita come ostile, cosa rimane?
Riamane uno stereotipo ormai totalmente svigorito, immemore della potenza evocativa che pure un tempo possedeva e irraggiava, e verso cui le nuove generazione hanno giustamente perso ogni interesse. Ossia un rituale kitsch agito da maschi adulti pieni di lustrini carnevaleschi, mossette vagamente comiche se non omoerotiche e certamente caricaturali, con l'unica verità costituita dal lungo protrarsi della pena di un animale umiliato.
E se qualcuno ancora rimpiange tutto ciò, sostenendo che gli ricorda Hemingway con il suo basco nero e un poco obliquo, la macchina da scrivere posata sulle ginocchia come un gattone che fa le fusa, forse è il caso di offrirgli un bel mojito. Anzi, due o tre.
mercoledì 14 luglio 2010
Doomsday, o sull'onomastica canina e altre storie

E' tornata all'improvviso dagli anni cinquanta.
Non so se la prima volta io l'abbia vista in un film, oppure in televisione, sui giornali, l'immagine di un enorme quadrante di orologio.
Maschi adulti con un grembiulino bianco muovevano a discrezione la lancetta, in senso orario ma anche in direzione inversa, a seconda di quanto reputavano vicina una catastrofe planetaria di qualunque tipo.
Una guerra nucleare tra Russia e America, ad esempio. Oppure eruzioni, meteoriti, flagelli batteriologici e invasioni aliene. Tutto faceva brodo, negli anni cinquanta, per spostare l'affilatissima lama dei minuti una sola tacca più in là.
Fu realizzato nel 1947 da un gruppo di scienziati atomici, chiamandolo Doomsday Clock, l'orologio della distruzione.
Sembra il nome di uno di quei cagnetti piccoli e chiassosi, dal muso buffo e affilato. Invece è una specie di clessidra implacabile, dove la mezzanotte incombe minacciosa e coincide con la fine del mondo. O meglio di quella minima e provvisoria versione del mondo in forma umana, la nostra.
E c'è perfino una sensazione di rassicurante compostezza, nel dare un tempo e una direzione alla figura più enigmatica di tutte, scomponendo l'imprevisto con un bel grembiule da otorinolaringoiatra indosso. Ma così, imprevista, pure è ritornata.
Dagli anni cinquanta.
E' ritornata questa confusa percezione di distruzione, annullamento. No, il 2012 non c'entra nulla. Un totale e sommesso disinteressamento verso ogni cosa, compreso i cori fin troppo intonati delle Cassandre, come nel monologo di Apocalypse Now , da una poesia di Thomas Eliot:
"Noi siamo gli uomini cavi, noi siamo gli uomini impagliati, appoggiati l'uno all'altro, la testa piena di paglia..."
Ed è la sagoma massiccia del colonnello Kurt che emerge dalla penombra livida, mentre si accarezza l'unica parte che ancora riluce al fuoco delle candele, il cranio glabro sfinito dai raggi del sole tropicale, nell'altrettanto e assoluto sfinimento per tutto quanto.
Una pena diffusa, feroce, compassionevole ma ugualmente distruttiva, anche e forse soprattutto verso di sé.
Un paradosso, sì.
Quello che fa muovere la lancetta in avanti con le proprie mani, per truccare sul tempo, per avvicinarsi, solo pochi minuti ancora, alla mezzanotte.
Ma perché gli psichiatri si ostinano a chiamarla depressione?
E' solo un gioco da bambini stanchi, convinti che ogni lenzuolo sia una vela, una tenda, e sotto sotto covi il risveglio dopo un brutto sogno. Con Doomsday che scodinzola e fa le feste, abbaia per uscire quando ancora spiovono certi goccioloni.
In un'abbagliante cascata di luce e di corn flakes.
La creatività fa male, o sulla deriva dei continenti linguistici

Io penso che la creatività faccia male. Ecco, lo scrivo subito e non ci penso più. Sono convinto faccia male, meglio, lo stupido pregiudizio per cui dentro ognuno di noi riposi sepolto un tesoro esclusivo di parole, immagini, emozioni, pensieri, stati d'animo di cui il mondo merita di essere al più presto informato – per mezzo della creatività.
E così ci si improvvisa poeti, artisti, fotografi, letterati. Quindi si corre a postare orgogliosi le proprie creazioni su internet; altri te le affidano in mano trepidanti rivendicando un giudizio in fondo già scontato, almeno nella loro testa: “Che immagini originali e suggestive, come sei creativo!”
Una volta un tale che voleva a tutti costi che io leggessi le sue poesie, alla domanda su quali fossero i poeti che a sua volta frequentava, mi rispose seraficamente: “Io non leggo gli altri poeti, mi influenzerebbero, mi corromperebbero. Io sono un poeta, un creativo. Non un lettore”.
E io sono uno a cui i poeti tanto puri, tanto incorruttibili, stanno sui coglioni, avrei dovuto rispondergli. Uno sprovvisto di enzimi per digerire i creativi. Tutti. Indistintamente. Compreso le nuove istituzioni mediatiche, che allungano la corda a questa incalzante tendenza tardo-moderna. La creatività.
In una bella serie di lezioni radiofoniche, Giuseppe Pontiggia ricordava come per i latini il termine creatività non avrebbe avuto alcun senso. Un tempo gli artisti non creavano infatti i loro contenuti, che erano il frutto, nella percezione diffusa dell'impulso immaginativo, del suggerimento delle Muse. Ossia inventavano, che sta a significare che semplicemente e letteralmente li trovavano.
(Inventare, dal lat. invéntus, participio passato del verbo invenire: trovare, scoprire cercando, e propr. giungere a qualche meta.)
Ma se le immagini, i temi e le suggestioni non sono di esclusiva pertinenza dell'artista, ciò significa che il suo merito personale va limitato alla cura e alla sensibilità dell'esecuzione. Cioè al suo lato pratico, che i latini facevano coincidere con l'arte tout court, una sorta di perizia del fare.
Il termine creatività ha dunque la sua legittimazione non in campo estetico, ma teologico. Nella tradizione giudaica e poi cristiana, si fa strada l'idea di una divinità che cava dal nulla le cose – “creatio ex nihlo” - per poi consegnarle ancora umide e scintillanti al mondo, come il nuovo giocattolo del bambino.
Anche nella moderna fisica delle particelle è presente l'idea di una realtà ultima in continuo stato di ebollizione, dove ciò che è, gli “essenti” si potrebbe dire con una terminologia filosofica, rampolla misteriosamente dal nulla, prima di esserne nuovamente riassorbito.
L'universo sarebbe dunque anch'esso creativo, e ciò sembra legittimare la diffusione inarrestabile del termine. Con una differenza, piccola, ma decisiva. Quella che l'universo non corre immediatamente a postare le proprie creazioni su Facebook, ma le sottopone prima al vaglio dell'evoluzione, al collaudo dei secoli.
E' forse la differenza che passa tra il termine già incontrato di arte, ars, fare, alla semplificazione spontaneista che soggiace a ogni maldestro tentativo. Un'opera d'arte sarebbe insomma un'opera meditata, verificata attraverso una comune e vigile esperienza. Che in campo artistico corrisponde a una percezione più lucida e viva di ciò che è, contribuendo allo stesso tempo a mostrare ciò che potrebbe essere.
Ma se accettiamo questa sfumatura concreta e fattiva, che non nega l'emozione e la sensibilità personali ma le ancora a una percezione più estesa e transitiva del processo espressivo, ci avviciniamo anche alla radice di quello che io trovo essere l'equivoco contemporaneo. Ciò che viene disinvoltamente rubricato alla voce creatività, coincide, in effetti, non con una sfumatura teologica della prassi, ma con una diversa categoria linguistica: la velleità.
Proviamo allora, anche solo per gioco, a volgere in questo diverso modo alcuni tra i molteplici utilizzi del termine creatività, specie nella sua funzione aggettivale. Le scuole di scrittura creativa, ad esempio. E se fossero invece, magari non tutte, d'accordo, se non fossero altro che scuole di scrittura velleitaria?
Oppure i pubblicitari, almeno quelli che orgogliosamente si definiscono creativi, immaginiamoli magari un poco indulgendo allo stereotipo – occhiali in celluloide fucsia e abiti dalle fogge variopinte e bizzarre - che così si presentano a un primo incontro: “Piacere, mi chiamo Tal dei Tali e sono un velleitario”.
Torna alla mente una vecchia intervista a Federico Fellini, in cui raccontando l'origine del soggetto della Dolce vita, scaturito come noto da una collaborazione con Ennio Flaiano e Tullio Pinelli, con vocina sorniona così lo sintetizzò: “E' la storia di una certo Guido, di professione velleitario”.
O sarà che anche io mi chiamo Guido, e che mi interesso di scrittura, di narrazioni, tanto da essermi spesso interrogato su quel che faccio, non senza una punta di disagio. Intendo dire, come faccio a sapere se sono un narratore o un velleitario...?
L'unica risposta, per quanto provvisoria, che alla fine mi sono dato, è che velleitario è colui che non è disposto (o forse non ne è semplicemente capace, non ci pensa) a verificare la propria intuizione dentro un orizzonte di saperi costituiti, di vagliarla per mezzo di una consapevolezza che discende da una tradizione viva.
Questa facoltà di scegliere e discernere tra diverse possibili opzioni, ancora ci rimanda all'invenzione, il termine latino da cui siamo partiti. La differenza che passa tra un creativo e un inventivo è dunque quella che passa tra chi si pensa al centro del mondo, come l'ombelico di Brahma da cui sboccia il fiore di ogni cosa, e chi invece sa che dall'altra parte del confessionale ci sta sempre qualcuno; le Muse, un canone artistico, la felice e necessaria influenza dei maestri, a guidare ogni nostro timido e goffo passo verso la pienezza espressiva.
Che senza tale aiuto resterebbe sempre e solo quel che è: pura velleità.
lunedì 12 luglio 2010
I will survive, o sull'orrore come brutto muso del kitsch

Sono semplicemente entusiasta della video performance dell'artista australiana Jane Korman. Figlia di un sopravvissuto al campo di sterminio nazista di Auschwitz, ad Auschwitz la Korman è di recente tornata insieme ai suoi tre figli e all'anziano genitore (89 anni).
Sulle note della celebre canzone di Gloria Gaynor I will survive, le tre generazioni di superstiti - già che senza la sopravvivenza dell'unico e vero internato, nemmeno gli altri ora sarebbero lì - iniziano uno strano e buffo balletto nei luoghi dello sterminio, quasi la farsa di un musical hollywoodiano.
Inevitabili dunque le polemiche, da ogni parte del mondo.
Eppure la chiave geniale dell'operazione sta proprio nella cifra della messa in scena, con tutta evidenza kitsch. Che ci ricorda come gli orrori più diffusi - e Auschwitz ha dell'orrore il diritto simbolico di antonomasia - nascono spesso da un gesto sciaguratamente kitsch. E cioè emulativo di un modello limpido e astratto, sontuoso, ma privo della sua ombra incarnata nella contingenza, che produce il necessario anticorpo dell'eccezione. Così senza più deroga ad una norma stilizzata nella parodia del vero, ciò che va perduto è il più umano tra i sentimenti: la pietas.
Che lo si dica, allora, che lo si scriva e lo si racconti ai giovani, che il nazismo è stato prima di ogni altra cosa un comico e funesto baraccone kitsch.
Oppure lo insceni, con beffardo spirito mimetico - omeopatico, sarebbe forse più giusto dire - come fa Jane Korman insieme alla sua complice famiglia. Che con i loro allegri passetti di danza sulle pietre che hanno visto l'orrore, ci ricorda, o meglio ci mostra come la vita sappia sopravvive a tutto. Anche all'orrore, sì. Soprattutto all'orrore.
Perché l'orrore non è nient'altro che la vita quando si prende troppo sul serio. Divenendo kitsch.
Qui è possibile rivedere il video in questione.
Il romanzo im-mondo, o sulla faglia che solca la nuova scena letteraria italiana

Da qualche tempo si sta facendo spazio dentro di me un'idea. Un sospetto, meglio. Quello che alcuni tra i più significativi narratori di questo paese abbiano fatto della letteratura un totem, una sorta di mistica privata ma anche tribale, a cui accostarsi con toni accigliati e severi.
Ricavo tale sospetto non dalle opere, che sono anzi estremamente varie e felicemente differenziate, ma da diffusi interventi che leggo sul web, vero e proprio terreno di coltura che ha consentito il rifiorire di qualcosa che somiglia a un dibattito culturale.
E fortunatamente solo ci somiglia, senza esserlo, perché sul web ci si è molto allontanati dalla sclerosi formale e accademica con cui il termine si accompagnava negli anni passati, riavvicinando la riflessione critica all'esperienza viva e spesso sofferta del presente. Dopo un periodo di oblio in seguito al farmaco assopente degli anni ottanta, gli autori contemporanei hanno ripreso a mettere a tema il proprio lavoro, compreso quegli aspetti che derivano dalla visibilità sociale ottenuta, sviluppando una riflessione ricca, varia e articolata, ma accomunata da quei tratti di idiosincratica radicalità che abbiamo registrato all'inizio.
Anche i testi narrativi patiscono il presente, ma non in forma unitaria e piuttosto lacerata e franta. Non siamo insomma al cospetto di “opere-mondo”, per utilizzare il bel termine inaugurato da Franco Moretti, con cui caratterizzava certi esiti onnivori della letteratura americana post-moderna. La sintesi la troviamo invece nella parole lucidamente autocritiche delle nuove leve di scrittori, che al netto di Roberto Saviano, il quale ha fatto di una concreta utopia civile il proprio tema personale, manifestano un progressivo fastidio verso ogni appartenenza non solo politica ma anche geografica.
Nonostante il diffuso riferirsi a un autore come Pasolini, recuperato in funzione magistrale con un'unanimità di consenso che appare perfino imbarazzante, è difficile scorgere nel panorama letterario italiano una reale tensione d'appartenenza, seppure nostalgica come appunto avveniva in Pasolini, a una comunità allargata che faccia riferimento a un luogo fisico. Ciò in cui si incaglia la continua riflessione di questi autori è dunque proprio l'assenza di qualcosa come una “heimat”, che faccia da cornice comune anche nel dividersi, nello schierarsi, come avveniva fino a un paio di decenni fa. Viceversa è proprio la nozione di patria, per quanto lasca o estesa come il termine Occidente, o Europa, a procurare maggiori defezioni.
Tutti si occupano del paese o della civiltà in cui ci sentiamo storicamente ingaggiati, ma nessuno ne avverte personalmente il legame, se non in una forma sarcastica e stupefatta – quella tragica meraviglia da cui i Greci trassero la filosofia (“thauma”).
Non è presente negli scrittori contemporanei nemmeno una mitologia esotica, come all'inizio del secolo, o il rinnovarsi del sogno americano, che ha più tardi segnato gli autori del secondo dopoguerra; in seguito fu invece il Sud America o altri lembi di mondo. No, non c'è più nessun altrove geografico a distrarre le poetiche del presente; ma neppure nessun qui e non dico ora, ma domani, dopodomani, a configurarsi quale utopia civile.
L'imbuto geografico sembrerebbe condurre a una sensibilità nichilista, al buio sconforto della generazione del “no future”, che solo nelle forme frastagliate di una ribellione senza oggetto, prima ancora che senza speranza, ha caratterizzato una significativa minoranza negli anni settanta. Ci sono però molti segnali che ci allontano anche da questa interpretazione. Si registrano infatti molte parole circostanziate ai luoghi, ed è grande e convinto il coniugare verbi al presente. Oltre appunto una grande attenzione alle dinamiche politiche e antropologiche del quotidiano, come se ci stesse muovendo in folta schiera verso qualcosa...
Ma dove stanno andando tutti questi scrittori, in quale direzione, se non hanno in tasca alcun biglietto aereo; e nemmeno una zappa o un badile o un martello, con cui ricostruire questo paese dall'interno?
Forse non sono in marcia verso un luogo, ma all'interno della letteratura stessa, che sembra essere divenuta lo spazio concreto in cui i nuovi narratori sono diretti. Ma attenzione, letteratura intesa non come forma vuota di parole, cioè come struttura linguistica, gioco combinatorio, ma come crogiolo in cui il corpo intercetta il mondo e le altre presenze vive che lo abitano, che solo attraverso tale attrito paiono acquisire consistenza, diventare dicibili.
La serietà e perfino la prosopopea, alle volte, di questi nuovi autori, segnala dunque l'impossibilità di una vita dentro questo mondo; ma allo stesso tempo allude all'assenza di un altro mondo in cui rifugiarsi, se non all'interno di sé e nelle relazioni orizzontali e selettive tra naufraghi.
La letteratura diviene così uno stigma di appartenenza, un tulipano nero tatuato sotto la camicia, che davvero ci allontana dal Novecento ma non in un definitivo balzo in avanti, e semmai indietro. Il sospetto iniziale si precisa così nell'immagine biblica di una comunità letteraria impegnata in un esodo di massa verso l'Ottocento. Cioè verso una socialità in cui le distinzioni non avvengono tanto per reddito, censo o progetto politico, ma per “estetica”. E intendo il termine nel suo significato originario e filosofico, e cioè di percezione sensibile del reale circostante.
Nell'Ottocento si contrapponeva la grassa e pigra estetica borghese a quella degli artisti. Ora i termini sono più confusi, sfumati. Ma mi pare evidente che gli esiti della politica, in particolare la politica dei consumi e della finzione spettacolare, e cioè l'uroboro che in questo paese parte e ritorna a Mediaset, abbiano portato le persone a una radicalizzazione del conflitto, che non è ormai più politico ma appunto estetico e di sensibilità.
La letteratura, come da suo mandato, rende tutto ciò semplicemente più evidente. Ma non essendo una scienza esatta e fintamente neutrale, lo fa con una passione di parte che sembra non lasciare più scampo a utopie rigenerative. L'Italia è morta, sì, e una comunità civile non solo non è data ma nemmeno più pensabile, sembrano dirci i nuovi autori. Se non nella forma trasversale di comunità estetiche non localizzate, e dunque letterarie.
La nuova tendenza che ricaviamo dalla lettura dei romanzi, ma soprattutto degli interventi sul web dei narratori contemporanei più interessanti, non ha ancora un nome né contorni definiti e certi. In opposizione ironica alla formula di Franco Moretti a cui già ci siamo riferiti, mi verrebbe però da battezzarla provvisoriamente a questo modo: “romanzo im-mondo”.
Che ci ricorda come non ci sia più un mondo in cui il presente possa essere ricomposto in figura, una società in cui sviluppare dialetticamente il conflitto estetico. Ma se afferriamo i lembi lacerati della ferita, come i nuovi narratori ci insegnano fare, forse riusciremo anche noi a cavare qualcosa di ancora vivo e palpitante, quattro gambette che scalciano e si dimenano.
Non due, quattro. Perché si tratta con evidenza di gemelli eterozigoti, che non hanno più nessuna intenzione di condividere lo stesso utero angusto
Eppure è proprio a questo livello germinale, ossia letteralmente dell'origine, del corpo, del sangue e del sesso e del male, che possiamo vedere come la letteratura sappia ancora svolgere la sua preziosa funzione di compendio paradossale. Perché se anche la puerpera è ormai cadavere putrescente, ci accorgiamo che i due gemelli -l'Italia berlusconiana e quella anti-berlusconiana, potremmo dire semplificando - sono pur sempre figli della stessa tribolazione.
E allora forse non è tanto importante recuperare il sentimento di una comunità territoriale, ma un sentimento, uno qualsiasi, segno che il corpo non ha ancora cessato di fare esperienza di quel che ci sta là fuori, e con parole balbettanti prova a restituirne lo stupore.
Torniamo a thauma, a un mondo senza patria, confini, ci stanno così sussurrando i nostri più vigili scrittori.
(Ps – Ho volutamente cercato di evitare di nominare specifici autori o correnti, riservandomi di farlo in un secondo momento. A questo primo livello intuitivo credo sia opportuno mantenere i contorni nella necessaria vaghezza. Contemplando, negli esiti futuri, anche quello dell'errore.)
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giovedì 8 luglio 2010
Colabrodo, o sulla fenomenologia della chat

Ho provato perfino a battezzarla, senza riuscirci. Eppure quella che sperimento è una sensazione diffusa, quotidiana e per nulla drammatica, come se la scodella che ci contiene fosse divenuta all'improvviso un colabrodo, e da piccoli forellini chiunque potesse penetrarci in ogni momento.
E' sufficiente accendere il computer, collegarsi a un social network come facebook, e dopo pochi minuti un qualche conoscente, anche virtuale, si farà vivo con la finestrella della chat.
Farsi vivo, ecco. Un'espressione logorata dall'utilizzo, ma che in questo caso mi sembra recuperare la sua originaria pertinenza con le cose. Non sono infatti delle richieste di informazioni, o l'offerta di una generica conversazione, quelle che provengono da questi nostri conoscenti che ci inchiodano alla presenza, qui, ora, o piuttosto ora e in nessun qui, ma vere e proprio manifestazioni di vita.
Ciao, cucu, come va, disturbo... Espressioni che normalmente segnalano la disponibilità a un dialogo, o ancora meglio servono a stabilire e mantenere un flusso comunicativo attraverso interiezioni, ammiccamenti verbali, su internet è come se acquisissero una consistenza autonoma. Più che uno specifico contenuto informazionale, tali espressioni segnalano infatti una disposizione psicologica, una sorta di cornice alla comunicazione vera e propria. Ciò che nella teoria linguistica viene chiamata “funzione fatica”. Ossia, letteralmente, un parlare (“fari”) per parlare, un segno che ha in sé il suo unico riferimento, quasi fosse la prova tecnica del microfono prima della canzone.
Il problema è che la canzone per cui vengono fatte infinite prove, poi non arriva mai.
Al tempo della comunicazione di massa, capillare, diffusa e vincente, c'è dunque da sospettare che si accompagni una corrispondente ansia d'abbandono informativo, che muove alla richiesta di continue riconferme sulla vigilanza dell'interlocutore. O meglio, non dell'interlocutore ma di “un” interlocutore, uno a caso, purché disposto a confortarci sulla sua semplice e sola presenza, quanto e forse soprattutto sulla nostra.
Vengono alla mente le immagini di certi film di fantascienza del dopoguerra, dove, al seguito di un invasione aliena dallo spazio, un uomo si aggrappa urlando alla cornetta del telefono: “Hei, c'è qualcuno, c'è nessuno dall'altra parte?!”
Ma quando l'inquadratura si allarga in uno zoom indietro, il totale restituisce l'immagine di quello stesso uomo mutato in un grosso insetto peloso. Sì, è ormai diventato un alieno anche lui.
Ciao, cucu, come va, disturbo...
Un formulario alieno, proviamo allora a vederla a questo modo, distante dalla sottigliezza garbata di una lingua scritta ma ugualmente dalle sfumature vocali del parlato. Come se la chat riuscisse a sintetizzare il peggio dell'oralità e della forma grafica, realizzando la formidabile impresa di azzerare qualsiasi sforzo di conferire significato, ma anche patos, emozione, a quel che stiamo dicendo.
Eppure in questa vitalità senza sangue, in questa semiosi senza oggetto, anche la lingua della chat ha forse qualche specifica attinenza. Uno strumento dove il grottesco diviene plausibile, in cui la blatera non causa più vergogna. E in cui l'erotismo infantile riacquista familiarità dentro le nostre esistenze sempre più disincarnate.
Di che colore hai le mutandine, qual è la taglia del tuo reggiseno...? Frasi di questo tenore, da manga erotico giapponese, diventano moneta corrente dentro le chat, specie tra sconosciuti. Senza la verifica dell'esperienza, la fantasia può sfrenarsi nella forma che gli è più congeniale: quella del fumetto.
Ma questo è in fondo un caso particolare, che ci allontana dallo stanco dilagare delle frasette di circostanza appena descritte. All'inizio ho provato anche a prendere sul serio tali approcci, interpretandoli come offerte di dialogo, epifanie umane all'interno di una pigra routine tecnologica. Così pure io mi aggrappavo alla cornetta, sì, c'è qualcuno dall'altra parte, roger roger, ma ne ricavavo un senso di frustrazione crescente.
Nessuno aveva realmente qualcosa da dirmi, nemmeno persone che avevo frequentato, perfino amato in alcuni casi, e che ora mi restituivano una formuletta logora per intercettare il mio tempo, senza la corrispondente disponibilità a occupare la mia attenzione con un racconto, o anche solo con lo sguardo vigile di chi abbia ancora voglia di essere stupito, dirottato dall'immobile certezza del presente.
Una chat si risolve allora e il più delle volte in questo: pura dissipazione verbale, perdita di tempo e di concentrazione su uno specifico argomento, ciò che una volta si sarebbe chiamato tema. In un orizzonte che, a questo modo, si fa davvero orizzontale. Quello del colabrodo che non trattiene nulla ma tutto lascia filtrare, anche i fili della pasta che sgusciano fuori come tanti vermetti neghittosi, in fuga verso la terra promessa dei buongustai.
Mentre il sugo è altrove, sempre altrove, e qui continuiamo gocciolare parole in una lingua dietetica e scotta.
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mercoledì 30 giugno 2010
Rosso o verde?, o sulla verità daltonica

L'associazione Asia. Li ho scoperti su internet da pochi giorni, hanno sede a Bologna e organizzano delle cose interessanti, tra cui le Vancances de l'esprit; che a parte l'odiosa formulazione francese, mi sembra un'iniziativa molto bella: brevi stage filosofico-divulgativi, aperti a tutti sebbene a pagamento, in una località dolomitica vicino a Bolzano.
In seguito il materiale di questi corsi, tenuti dai massimi esponenti della cultura italiana, viene editato in dvd e messo in commercio. E mi sembra apprezzabile anche questo.
Infine sul portale del loro sito web compaiono di tanto in tanto delle video interviste, o brevi confronti tra autori. Proprio oggi veniva discussa l'idea filosofica di verità tra Gianni Vattimo e la sua ex allieva Franca d'Agostini, entrambi protagonisti delle prossime Vacances de l'esprit.
Personalmente ho trovato il confronto illuminante nel porre con radicalità, ma anche cordiale passione, quello che è forse l'argomento filosofico decisivo.
Dopo aver visto il video (lo si trova a questo link), ho avvertito il desiderio di elaborare un mio breve commento, che segue qui nella forma di una mail che ho spedito ad entrambi.
Non li conosco di persona, ma nel caso avessero la bontà di rispondermi aggiungerò anche la loro eventuale replica.
Gentili Franca d'Agostini e Gianni Vattimo,
ho appena seguito il video confronto che vi trova intellettualmente contrapposti sul sito internet dell'associazione ASIA. Colgo l'occasione per ringraziare entrambi, oltre naturalmente anche l'associazione ASIA, per la bella e utile iniziativa. Al termine della visione mi è quindi venuta alla mente un'immagine che mi piacerebbe condividere.
L'immagine è questa: un semaforo rosso.
Anzi, meglio, un semaforo rosso in una strada deserta e nebbiosa, una notte come tante nella sterminata provincia americana. Puro Edward Hopper, insomma. Che non a caso viene descritto come pittore realista; anzi: iper-realista. Da ciò ricavo una sensazione di rassicurante certezza, su cui mi sembra che debba convergere lo spettro molteplice delle opinioni: è vero, è reale che il colore di quel semaforo, in quel momento, in quel luogo, è il rosso. E' addirittura iper-vero.
Se non ci fosse uniformità di consenso, un eventuale automobilista potrebbe infatti superare la linea dello stop, scontrandosi con un (altrettanto eventuale) autovettura che provenisse dalla direzione tangente. E dovremmo infine concludere che, come per l'esempio classico della pioggia - "se mi bagno è vero che piove" -, a questo primo ed elementare livello dell'esperienza esistono delle affermazioni verificabili e certe.
O se preferiamo e più formalmente, una convergenza univoca tra proposizioni ed oggetti.
Ma in narrativa le cose sono spesso più complicate e contraddittorie che in filosofia, e io non sono un filosofo ma uno che racconta storie. Così alla guida della Cadillac rosa, che sopraggiunge a forte velocità verso lo stesso sperduto incrocio, immaginiamo di avere Jack Ultimo Bicchiere. Il quale oltre a essere ubriaco, assonnato, disperato perché la sua fidanzata l'ha appena lasciato, è anche daltonico. E percepisce dunque come verde ciò che a noi appare di un bel rosso carminio.
Una prima valutazione parziale ci imporrebbe però a questo punto una distinzione, che vede la materia linguistica scindersi tra:
1) Predicati relativi all'esperienza sensibile del mondo, quali appunto quelli che riguardano un semaforo; oggetto che ha nella manifestazione evidente il suo principale requisito.
2) Predicati relativi a un'esperienza mediata e culturale, non verificabili attraverso esperienza diretta. Ad esempio idee religiose, concetti di giustizia, gusti e valori morali.
Ma concentriamoci ora sulle sole proposizioni relative al primo punto, e cioè tutte le affermazioni che hanno nella fattualità sensibile il loro riferimento concreto. Bene, l'esempio di Jack Ultimo Bicchiere ci mostra come anche in questi casi, in cui ci appelliamo all'evidenza che proviene dai sensi, non esista una materia certa e incontrovertibile che faccia da sfondo ontologico al giudizio. Ossia anche il rosso non è rosso in taluni casi che sono ugualmente reali, e dunque "veri".
Ma ha senso scrivere il termine verità tra virgolette, come ho appena fatto io? Credo di no. E ciò dipende dal fatto che, in una prospettiva filosofica ossia di massima coerenza linguistica, realtà e verità sono termini non equivalenti. Ancora più radicalmente, l'esempio di Jack Ultimo Bicchiere ci porta ad ammettere che la realtà possiede sempre un elemento costruttivo, originato dall'incontro tra soggetto e mondo, prima ancora che di relazione tra diversi interlocutori, producendo per sedimentazione dialettica l'insieme dei saperi che vanno a costituire una specifica cultura. Mentre la verità filosofica è qualcosa che per definizione dovrebbe "stare sopra" a tutto ciò (epistème).
Eppure un'affermazione cromatica non mi pare che possa essere liquidata come "culturale". Non avviene infatti interpretazione, o trasmissione di saperi calcificati nel giudizio; senza allo stesso modo poggiarsi sopra a un dato stabile e incontrovertibile, né a maggior ragione metafisico. Piuttosto le impressioni sensoriali hanno quale legittimazione l'omogeneità prevalente del sistema neuro-cognitivo umano. Che ci porta a percepire, in massima parte e cioè statisticamente, una particolare vibrazione dello spettro elettromagnetico allo stesso modo. E allo stesso modo così anche la chiamiamo: rosso.
La circostanza per cui esistono persone, come Jack Ultimo Bicchiere, che percepiscono in modo alternativo quello stesso stimolo sensoriale, non mi pare così un argomento sufficiente per escludere dal dibattito filosofico ogni riferimento fattuale o realistico, concludendo che tutto è soggettivo ed interpretabile. Mi sembra piuttosto una variabile utile a separare concettualmente ogni valutazione basata sull'esperienza - che chiameremo provvisoriamente "verità sensibile" - da discorsi di ordine interpretativo e dunque negoziale, che paradossalmente potrebbero rivelarsi filosoficamente "più veri" delle proposizioni ricavate dall'esperienza. O detta diversamente: ciò di cui non abbiamo percezione non è detto che non sia, e viceversa ciò di cui abbiamo prova tangibile attraverso i sensi non è detto che sia per ciò stesso vero (può ad esempio trattarsi di un miraggio).
Questo esempio, mi rendo conto, riporta la discussione dentro l'alveo vagamente naif di un Bigino di storia della filosofia. In cui viene insegnato che con la modernità si passa dall'aliquid est (qualcosa è lì) degli antichi al cogito cartesiano, e cioè da un atteggiamento di ottimistica confidenza rispetto alle informazioni che provengono dai sensi - come San Tommaso gli antichi si affidano al barometro del naso - a una brezza dubbiosa, una sorta di tarlo fenomenico. Eppure, proprio tale pedante premessa, è utile per arrivare a quello che a me pare il punto davvero delicato. Se noi ammettiamo quale elemento dirimente e veritativo i sensi, anche solo nella loro declinazione statistica - perché di questo si tratta: statisticamente i più percepiscono una vibrazione elettromagnetica come rosso - estendendone l'applicazione dal primo campo predicativo al secondo (e cioè ai predicati che non contengono un'esperienza diretta del mondo, ma ai valori e alla cultura), approdiamo a risultati piuttosto imbarazzanti.
Infatti, come abbiamo appena visto, l'elemento di legittimazione che proviene dai sensi è di natura non qualitativa ma quantitativa, statistica. Quindi più che di verità dovremmo parlare di con-senso, cioè di convergenza di sensazioni che non raggiungono mai l'unanimità del giudizio. Ma è forse più chiaro con un altro esempio.
Una maggioranza statisticamente schiacciante di persone è attratta da persone di sesso opposto. Se a tale premessa di carattere unicamente numerico noi volessimo applicare il dunque sillogistico, arriveremmo a riconoscere come vere le posizioni del Papa sull'omosessualità. Dal punto di vista della statistica come elemento di discernimento del vero, la Chiesa Cattolica Apostolica e Romana non fa infatti che ratificare un dato diffuso d'esperienza. Agli uomini (prevalentemente) piacciono le donne, e alle donne (prevalentemente) piacciono gli uomini.
Ma questo è consenso, non verità!
O detta in termini filosofici, questo è l'errore, nei nostri tempi sempre più diffuso, di chi confonda l'episteme con la doxa, la verità con una sia pur legittima opinione (sì, anche le sensazioni sono opinioni: perché sono opinabili).
La questione analitica diventa dunque che, come avviene anche per il daltonismo, è arbitrario e concettualmente errato estrarre un dato statistico-fattuale per indurre una conclusione di tipo ontologico sull'essenza ultima delle cose, quale appunto l'affermazione apodittica che l'omosessualità è "contro natura". E' un falso sillogismo, in cui si passa dalla premessa minore a quella maggiore. E ciò non solo perché non abbiamo esperienza fattuale della natura oltre il limite dei nostri sensi, ma anche perché, se così fosse, non solo gli omosessuali ma anche i daltonici, semplicemente, non sarebbero.
Fatte queste premesse di carattere metaforico-concettuale, io mi sento vicino a una posizione in qualche modo interlocutoria rispetto a quelle espresse da Franca d'Agostini, più incline a una visione oggettivante della materia, e Gianni Vattimo, per cui invece ci troviamo al cospetto di una competizione, non sempre evidente, tra interessi contrapposti; quindi in ultima istanza la verità sarebbe uno strumento di potere, già che per lui la nostra esperienza di uomini si limita a una contesa tra opinioni (il famoso "pensiero debole").
Trovo insomma che l'esperienza sensibile, per quanto sottilmente ondivaga e ontologicamente inattendibile, abbia un tale grado di persuasività concreta da proporsi quale elemento fondativo e dirimente le questioni pratiche di verità ed errore. Il problema, perfettamente intuito da Heidegger e sottolineato da Gianni Vattimo, è che tale verità esperibile non riguarda tanto ciò che realmente "è", per così dire, ma quel che "funziona". E' cioè una verità di tipo efficiente, prima ancora che logica, già che a partire da Aristotele la logica esclude l'eccezione; non esiste una logica daltonica, o perlomeno non esisteva eccezione dentro la logica classica, che fa ancora da sfondo al pensiero comune. Mentre per la scienza, e per la tecnica che ne sventola spensierata i trionfi, è sufficiente che la pistola si inceppi in un numero statisticamente poco significativo di colpi.
Se da un punto di vista del pensiero pratico mi sento così di convenire con i dati che provengono dall'esperienza sensibile - in caso contrario, senza un elemento maggioritario di consenso su cui fondare la convivenza civile, sarebbe inevitabile lo scontro con tutte le auto, non solo con la Cadillac rosa di Jack Ultimo Bicchiere - avverto l'estensione dello stesso modello valutativo come altamente pericoloso, quando appunto applicato a proposizioni non verificabili sensibilmente; e cioè ai valori, alla cultura. In questo caso, e solo in questo, mi sento in piena sintonia con Vattimo e Heidegger. Se infatti volessimo estendere il principio statistico anche al mondo dei valori, davvero dovremmo convenire sul fatto - saremmo cioè logicamente tenuti a farlo - che non solo Hitler non aveva torto a sterminare le minoranze dissenzienti, ma che aveva ragione...
venerdì 21 maggio 2010
Grazie Fulvio, o sulla riconoscenza

La Fontana con soldino leisure wear, by Guido Hauser design, ringrazia di cuore lo scrittore Fulvio Abbate, testimonial della collezione primavera estate 2012 del nostro brand. Teniamo botta Fulvio, che a quelli della Fred Perry gli facciamo il culo!
A questo link è possibile vedere il video in cui Fulvio Abbate parla di noi.
martedì 4 maggio 2010
Il don e il pop


Domanda. Perché quando Umberto Tozzi, febbraio 1991, va a Sanremo con una canzone dal titolo Gli altri siamo noi, Radio 3, nel frattempo, trasmette il concerto numero 3 per pianoforte e orchestra Rachmaninov?
E bon, questo possiamo anche capirlo: Rachmaninov, 'sti cazzi!
Ma perché, e questa sarebbe la vera domanda, quando Enzo Bianchi preannuncia un libro di teologia morale, maggio 2010, intitolato L'altro siamo noi, Radio 3 invece di trasmettere Rachmaninov dispiega tutte le sue armate suadenti per allertarci sul fatto che è quella roba lì, la cultura?
Non sarà che nel passaggio dal plurale (gli altri) al singolare (l'Altro), si è giocata anche una partita decisiva che riguarda la definizione di highbrow e lowbrow... Là dove con cultura alta si intenda quell'atteggiamento che pretende di tradurre il molteplice della cultura bassa (o pop) dentro lo stemma supponente e austero dell'Unico...
E sì che sarebbe bastato leggere il titolo del libro di Enzo Bianchi, per capire che le cose sono molto più mobili e transitive di quel che pensa Radio 3. L'altro siamo noi, già. O ancora meglio, ancora prima, bastava sintonizzarsi su Sanremo. Febbraio 1991.
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