martedì 10 agosto 2010

Divagazione patetica che più patetica non si può, o sulla fisica dei solidi



Oggi ho visto la mamma di Franca che non riusciva a salire sopra alla sua bicicletta.

Franca è una mia compagna di scuola delle elementari. Piccola, graziosa, minuta. La mamma di Franca è sempre stata tutto il contrario: un donnone dall'aspetto contadino, direi romagnolo. Anche dal cognome si intuisce che non sono originari di queste parti, ma non saprei bene dove collocarli, né quanti anni potesse avere allora.

Alle elementari le coordinate spazio-temporali sono come fluttuanti, e si precisano solo dentro la presenza di un corpo.

Ginevra aveva capelli lunghi, soffici e luccicanti. Ricordava la protagonista di un carosello che inizia con un cavallo bianco in corsa lungo un fiume, e continua con una famiglia scandinava che lancia sassetti dentro l'acqua. La ragazza del carosello però era bionda, mentre i capelli di Ginevra neri neri, del colore del corvo. Un giorno Ginevra denunciò la maestra per averle strappato una ciocca dei suoi scintillanti capelli corvini, e si presentò a scuola con un taglio a caschetto, alla Caterina Caselli. Non sono certo dell'autenticità dell'episodio, ma l'immagine della maestra che impugna i lunghi capelli di Ginevra e poi la strattona da una parte all'altra della classe, mi sembra possedere qualcosa di familiare.

Sì, familiare come un cavallo bianco in corsa lungo un fiume, mentre una famiglia scandinava lancia sassetti levigati sopra al pelo dell'acqua, rimbalzano e rimbalzano ma non vanno mai a fondo. Restano come sospesi nel tempo.

Oppure è il busto esile e dritto di Giovanni, che spunta appena dallo schienale curvo e sottile, le braccia immobili e composte lungo i fianchi. Uno per uno gli altri compagni lasciano le sedie e si incamminano verso la maestra, che ci attende sulla pedana della cattedra. Qui afferra un lembo dei pantaloni e scruta nelle mutande, esamina, manda assolti con un gesto. Solo Giovanni si rifiuta di alzarsi e raggiungere il luogo dell'ispezione, e già da quello intuiamo che deve esserci un qualche rapporto tra lui e l'odore che da qualche minuto ha iniziato a diffondersi in classe, sempre più intenso e penetrante.

Farsi la cacca addosso, già, in seconda elementare.

E poi la gioia feroce di essere riconosciuti innocenti e quindi meritevoli - inizio a ridere insieme agli altri, a schernirlo e a dargli del puzzone smerdolone - mentre da sotto la montatura pesante dei suoi occhiali in celluloide spillano i primi goccioloni. Ma lui continua a rimanere immobile, con una lava marroncina che spunta e cola dalla seduta in faggio chiaro, discende i tubolari in ferro della sedia.

Un totem, un vulcano senza sonoro. Questo è Giovanni. Da cui dolcemente eruttano lacrime e merda, merda e lacrime silenziose.

Di Corrado rimane la minuscola cicatrice di quando mi morse un avambraccio. Stavamo al doposcuola, fino alle quattro e mezzo del pomeriggio tutti i giorni, tranne il sabato e il mercoledì, poi iniziava Zorro in tv. Un Pitbull che non molla la presa, in tre cercavano a turno di staccare Corrado dal mio avambraccio, di aprirgli le mascelle con un righello o un compasso. Dovette arrivare il bidello, che mi liberò come l'amo dalla trota. I miei genitori, con prudenza e una sottile aristocratica vena di razzismo - le condizioni igieniche in cui viveva la famiglia di Corrado apparivano quantomeno dubbie -, mi costrinsero a seguirli poi al pronto soccorso, per l'iniezione antitetanica.

L'unica differenza tra Zorro e il carosello di Ginevra è che Zorro aveva un cavallo nero. Mentre Corrado, lo chiamavamo Calimero.

Isacco invece era sempre l'ultimo a terminare il compito. Chi prima chi dopo, consegnava il suo foglio dove Pierino ha cinque mele, ne mangia due, quante ne rimangono? Cose così, lieve brezza per i neuroni. Ma evidentemente non per Isacco. Che dopo svariati minuti di penosa concentrazione iniziava a sudare, a sbuffare, ad ansimare. Infine, rassegnato ma non per questo meno rabbioso con se stesso, ribaltava in terra il suo banco di formica verdina, esibendo il vasto firmamento delle cicche appese là sotto.

Un' eredità calcinata e rosa pallido, quella che Isacco ci rivelava, appartenuta a chissà quali precedenti scolaresche. Che ci passavano le loro deiezioni alimentari come il testimone dell'atleta nella staffetta.

E poi l'abito di Silvia una mattina di carnevale. Un vestito lungo e azzurro e ricamato, da damina incipriata alla corte del re Sole, con la sottoveste in pizzo e un'anima conica di metallo a sostenere il tutto. Ricordava la struttura della gondola lariana dei Promessi sposi (l'immagine era presente nell'abecedario alla voce B di barca), ma il viso era quello ovale e splendido di una piccola matrioska, più bella di Orietta Berti. E vederla così, per la prima volta senza l'offesa di una pecetta bianca incollata all'interno di una lente, che gli oculisti in quel tempo amavano infliggere ai bambini.

Corpi, sì, solo questo. Corpi da vedere e da annusare.

Come quello della mamma di Franca, che oggi non riusciva a salire sulla sua bicicletta. Non la incontravo da anni, di lei solo il ricordo di quando raggiungevo la figlia per i compiti e invece di una Brioss ci offriva un caco arancione e sfatto, nelle interminabili merende. Franca invece non l'ho più vista, ma mi diceva un altro compagno - Claudio, i capelli ancora tutti neri e conficcati sul cranio minuscolo e appuntito - che Franca, 43 anni, è già diventata nonna. La mamma di Franca è dunque la bisnonna. Ci prova e ci riprova, alla maniera di chi tolga le rotelle alla Graziella per la prima volta, ma il corpo pesante e vecchio viene ogni volta reclamato dalla terra.

Non come i sassetti della famiglia scandinava, che stanno ancora adesso rimbalzando, il cavallo bianco correndo a briglia sciolta sul bagnasciuga, senza nessuna forza di gravità, nessuna divinità marina o ctonia a ricordare che il prestito è scaduto.

La cosa veramente strana, allora, non è vedere i tuoi genitori invecchiare prima di sprofondare con un ciuf. A quello ti abitui giorno per giorno, il peggio viene dilazionato nello specchio dell'abitudine. Strano e doloroso è incontrare i genitori dei tuoi compagni di scuola delle elementari, ma non sapere infine cosa dire, se ti hanno riconosciuto anche con i capelli diradati, la mimetica da mercenario vezzoso, mentre loro stanno arrancando verso la vetta di un sellino. Né se abbia senso un gesto, una mano.

Ed è ancora il fermo immagine di Giovanni, caro Giovanni, il suo imperturbabile monumento di merda e lacrime, a venirmi in aiuto. Perdonami Giovanni, ci ho messo trentasette anni a capire che l'arguzia non è la migliore tra le virtù, né tutti i luoghi comuni sono stupidi e superficiali. Ad esempio quello che dice cacca di bimbo cacca di angelo, e tu avevi solo perso qualche piuma...

1 commento:

  1. mi commento da solo. lo so che questo raccontino autobiografico è pura merda sentimentale, come quella di Giovanni che cola sulla sua seggiolina in faggio chiaro. ma avevo qualche conto da chiudere con il mio passato, e il registro patetico, come posso dire, era l'unico che mi permetteva di infilare le mani in quella merda, e provare a fare pace con i fantasmi. ci saranno altre occasioni, per lavarsele col sapone dell'arguzia.

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