venerdì 30 luglio 2010

Eutanasia della corrida, o sulla differenza tra mito e folclore


La Catalogna abolisce la corrida per decreto parlamentare. E' noto, se ne è parlato diffusamente nei giorni scorsi. Ma forse non è ancora propriamente una notizia. Per esserlo, per configurarsi quale notizia, un avvenimento deve infatti sovvertire un ordine atteso. Il cane che morde il bambino non è un notizia, il bambino che morde il cane invece lo è. O se vogliamo utilizzare una diversa metafora, perché si compia un omicidio la vittima deve essere, se non proprio in buona e robusta costituzione, almeno viva. Non è contemplato l'omicidio di un cadavere.

Sorvolando sui numerosi commenti letti, alcuni certo interessanti come quello dello scrittore andaluso Antonio Muñoz Molina, una buona domanda a me pare quella di chi si interroghi sulla linea encefalografica della corrida; prima che il parlamento catalano ne staccasse definitivamente la spina, intendo.

La mia idea è che la corrida fosse in coma già da diversi decenni, o comunque estranea a quel tessuto sottile ma tenace su cui si sviluppano i ricami della Spagna post franchista. Riferendosi invece a un ordine sociale, un sistema di segni ed emozioni profonde, la cui struttura è da riferirsi a un'organizzazione umana precedente. Costituita dal riverbero di simboli antichi dentro un crogiolo di passioni, regole d'onore, stati d'animo collettivi che senza timore potremmo classificare come premoderni e mitici.

Ma sarebbe forse utile chiarire meglio anche quest'ultimo termine, il mito alla cui tavola banchettavano gli dei. Euripide, in una celebre sentenza, afferma che “gli dei sono in tutte le cose.” E diversi secoli dopo Agostino risponde che la verità si ritrova all'interno dell'uomo: “in interiore homine stat veritas”.

Questa corrispondenza tra interno, o se preferiamo anima, coscienza, psiche e l'esterno fluttuante delle cose del mondo, è propriamente la mitologia, con il rituale che ha funzione di spoletta di raccordo. Un'arte analogica dunque, il gioco sottile di richiami tra dentro e fuori, tra fantasmi della mente e lenzuola che si gonfiano ai sospiri di un carrugio.

Se prendiamo per buona l'interpretazione genericamente ispirata alla prospettiva analitica junghiana, vediamo così come ogni rappresentazione mitica si allontani dall'idea moderna di intrattenimento, che diversamente si associa al concetto di distrazione, svagato congedo dalla propria interiorità. Nel mito invece tutto si addensa, il fuori rimanda al dentro, sempre più all'interno, concentrato. Fino a che l'anima, al culmine di questo spasmo introverso, non viene come sbalzata in un territorio senza più coordinate certe, ma proprio per ciò tanto più autentico e familiare.

Potremmo anche trovare nell'esperienza mitica una corrispondenza con il precetto evangelico per cui ci si deve perdere per potersi ritrovare. Ed è esattamente quanto doveva avvenire nel pubblico catalano durante l'esibizione della corrida, almeno fino a quando Hemingway ci arrivava dopo il consueto giro di aperitivi. Ritrovare la via di casa in un intrico di simboli sessuali, arcaici, primitivi. Con un Teseo\Apollo nella veste del torero che, nell'esattezza affilata della forma, cerca di contenere e poi sconfiggere il proprio drago, infilzare il Minotauro\Dioniso incarnato nella vitalità irredenta di un toro. Il quale - ecco perché deve essere infine ucciso - ha una funzione sovversiva dentro l'ordine patriarcale del discorso civile.

Ma poi?

Ma poi più niente. Non so quando questo sia accaduto, né perché, ma tutti i commentatori sono concordi nell'affermare che lo spettacolo tradizionale delle cinque della sera, già da molto tempo a questa parte, ha cessato di smuovere sensazioni dentro le viscere degli spagnoli, prima ancora che nella loro testa. Non che nessuno assista alla corrida, però. Viene ancora seguita, allo stesso modo in cui il vecchio cane segue l'ombra del padrone defunto, a cui rimane fedele in altri e più svelti passi. La corrida ha smesso semplicemente di accadere.

In altri termini, l'essenza mitica e palpitante contenuta nel preciso rituale della tauromachia si è come ritirata, lasciando sulla spiaggia l'orma della sua sola struttura, che ha così finito con l'ossidarsi in stereotipo. Abbiamo a questo modo un evento originalmente vitale e profondo ridotto al suo sfinito simulacro, un cavallo di legno da cui tutti i guerrieri sono sgusciati fuori la notte. Ma invece che dar fuoco alla città, violentare le pallide vergini frementi, ora si trovano a piluccare hamburger e patatine fritte, in un bar con la televisione accesa.

E tutto ciò ha un nome ben preciso: folclore.

Il folclore è infatti il contenitore, l'involucro di un evento carico di profonde risonanze umane, psicologiche, simboliche e culturali, ma al netto della sostanza per cui la forma ha preso quell'aspetto. Insomma, il folclore ha una funzione unicamente ornamentale, e pertanto allontana dall'interiorità - distrae - almeno quanto l'esperienza mitica concentrava e rendeva prossimi a sé, sperdeva per ritrovare.

Il punto davvero interessante a me appare proprio questo. Se una rappresentazione a sfondo mitico, come appunto la corrida, ci conduceva in uno stato mentale in cui potevamo avere un'esperienza intima e profonda di noi stessi, per quanto in forme allusive e prerazionali e perfino crudeli, nel folclore abbiamo un esito del tutto ribaltato. Ma se capovolgiamo la verità otteniamo l'inautentico, e cioè una logora finzione programmata ad uso turistico; quando si sa che il turista, al contrario del viaggiatore, non desidera esporsi al vento dell'esperienza ma un semplice ventaglio colorato, che ne confermi le aspettative indotte. E così la corrida, che da uragano mitologico si era ridotta allo sbuffo regolare - e regolato - di un ventilatore elettrico.

Una barca a vela che nasconde il ronzio di un'elica, meglio, nello spossato afflosciarsi delle vele.

Trascurando provvisoriamente tutte le ragioni legate al rispetto degli animali e alla loro sofferenza - ragioni benemerite, attenzione, per quanto ipocritamente agite solo in direzioni particolari - e allo sfondo politico del decreto catalano, che anche in questo modo ha voluto affermare una propria distinzione dalla centralità repubblicana percepita come ostile, cosa rimane?

Riamane uno stereotipo ormai totalmente svigorito, immemore della potenza evocativa che pure un tempo possedeva e irraggiava, e verso cui le nuove generazione hanno giustamente perso ogni interesse. Ossia un rituale kitsch agito da maschi adulti pieni di lustrini carnevaleschi, mossette vagamente comiche se non omoerotiche e certamente caricaturali, con l'unica verità costituita dal lungo protrarsi della pena di un animale umiliato.

E se qualcuno ancora rimpiange tutto ciò, sostenendo che gli ricorda Hemingway con il suo basco nero e un poco obliquo, la macchina da scrivere posata sulle ginocchia come un gattone che fa le fusa, forse è il caso di offrirgli un bel mojito. Anzi, due o tre.

3 commenti:

  1. un "pensierino" filosofico e sociologico il tuo. Permettimi invece di essere diretto: un massacro fuori dal tempo, stupido e ingiusto. Stupido perchè non ha senso divertirsi per la morte gratuita di un essere vivente; ingiusto perchè le condizioni dei contendenti sono diseguali fin dall'inizio.
    Ma forse il parlamento catalano ha anteposto motivi politici(autonomia) piuttosto che quelli morali...

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  2. ah, per fortuna ho il mio unico lettore fisso a ripagarmi dei miei sforzi... ;-)

    (ps - sì Carlo, anche io, al netto di quelli che tu chiami pensieri filosofici e sociologici - e in effetti lo sono - approdo alla tua stessa conclusione: estetizzazione della pena di un'animale braccato, solo a questo si riduce ormai la corrida)

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  3. E' vero sono il tuo unico lettore fisso (finora) ma sicuramente non l'unico lettore!
    Tornando al post: infierire gratuitamente su esseri indifesi è una barbaria da condannare e per esseri indifesi naturalmente s'intende tutti quelli che dal creato non hanno avuto la nostra "fortuna".

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