mercoledì 4 agosto 2010

Profondità, superficialità... provando a fare un po' di ordine


Ok, vada per la profondità. Quelli che, come il grande critico e saggista francese George Steiner, quando parlano di filosofia lo fanno in greco o in tedesco; discutono di teologia patristica in latino; citano in italiano interi lunghi passi dell'opera cantata; ma per i discorsi di cucina naturalmente il francese, e l'inglese per tutto ciò che viene dopo la seconda guerra mondiale. Ecco, verso questo tipo di profondità provo una normale ammirazione, anche se mi incute un poco di timore.

Mi è diversamente ostile la superficialità di tutto quanto si avvicini a Simona Ventura. Quello è il mio barometro semantico, più sento odore di Simona Ventura e dei suoi amici stilisti, manager automobilistici, calciatori e per non dire degli stacchetti danzanti e i gridolini compiaciuti, la prosopopea dell'indignazione facile col ditino alzato, più effettivamente non trovo altro termine per definirla: superficialità.

Eppure ho l'impressione che questi termini polari - profondità \ superficialità - non corrispondano ai tratti dominanti di questo tempo, che più spesso si assestano su forme sfumate e ad essi intermedie. Bisognerebbe trovare allora dei termini più appropriati, più autentici.

Esiste ad esempio una particolare forma di superficialità che consiste nel navigare a vista, prestando attenzione alle mutevoli condizioni del mare, alla forma esatta e sempre diversa dell'onda, il suo frangersi disuguale. Persone, cioè, che pur essendo sprovviste di una cultura enciclopedica, mantengono vivo l'interesse e l'attenzione verso il dettaglio, ascoltano quel che gli viene detto ed è piacevole ascoltare. Verso questa vigile attitudine per le superfici dell'accadere, ipotizzo un termine diverso, un sostantivo più appropriato.

Chiamiamola provvisoriamente "superficiosità".

A tale atteggiamento di serietà fenomenica, è accomunabile, per contrasto, la profondità di chi affastelli semplicemente immersioni nei saperi, ma si distingue dal nozionismo per una postura riflessiva, discriminatoria e compiaciuta. Una sorta di seriosità noumenica, diciamo così.

E siamo giunti al cospetto di una presunta élite del pensiero. Alcuni hanno voluto chiamarla "radical chic", ma è un termine ugualmente limitato, riferendosi a una cultura settaria esclusivamente di sinistra. Io lo trovo invece un atteggiamento universale dell'umano, che fa della pensosità corrucciata la propria griffe di appartenenza. Una boutique affollata dove incontriamo la vocazione ad entrare nella dimensione sommersa degli eventi, scandagliando le componenti non manifeste dell'iceberg, le cause prima degli effetti. Il problema è che a molte di queste persone manca un vero talento d'apnea, e, a differenza del buon George Steiner con i suoi molti e profondissimi idiomi, si limitano agli elementi estetici del conoscere.

Come se Celentano desse lezioni d'inglese attraverso il testo della sua canzone Prisenensicolanciusol.

Ecco, questo atteggiamento del pensiero, più che al pensiero stesso si riferisce all'induzione ipnotica di un suono, o meglio ancora alla colonna sonora del pensare. Abbiamo così diversi stili musicali del pensiero profondo, che forse anche in questo caso dovremmo battezzare in modo alternativo alla profondità.

Può andare, "profonditudine"?

E' ad esempio un segnale inequivocabile di profonditudine quello di chi entri in libreria e chieda l'ultimo libro uscito dell'editore Adelphi; un editore che ha fatto della profonditudine un suo stemma fulgido di riconoscimento. Ma esiste anche una profonditudine Feltrinelli o Einaudi o per non parlare di certi lettori del Manifesto, che si avvicina in effetti alla categoria già incontrata del radical chic.

In linea più generale, potremmo riconoscere nella profonditudine l'atteggiamento di chi voglia ricollocare immediatamente l'esperienza dentro categorie già preformate; e attraverso le stesse categorie, emulare il gesto anticonvenzionale di chi si sottragga alla corrività dei pensieri superficiali, da esso biasimati come il male peggiore.

Il finto profondo, o "profondituto", è così in buona sostanza un superficiale, ma di secondo grado. Una persona mediamente scolarizzata, aggiornata, perfino arguta e rapida nel cogliere l'andazzo generale. Qualcuno però che ha la necessità di un navigatore satellitare di ultimo modello, preimpostato dalla tribù sociale d'appartenenza. Con le cartine ben dettagliate, può così avventurarsi lungo le rotte battute dell'ovvio, sollazzarsi alle rotonde del banale.

A questo livello ci imbattiamo in un'illuminante convergenza con una nozione più volte incontrata in questo blog, quella di kitsch. Come già abbiamo avuto modo di definirlo, il kitsch rappresenta infatti un’adesione enfatica, ma depurata da ogni elemento di problematicità o di sforzo interpretativo, ad un modello alto e riconosciuto, a cui si accordi un consenso preventivo.

O detta in forma più icastica, con le parole di Abraham Moles: “il kitsch è l’eccesso nella mediocrità”.


Provando dunque a ricapitolare. Abbiamo alcune persone, autenticamente colte e curiose, che utilizzano gli strumenti del sapere per entrare nel profondo delle cose. Per loro la cultura corrisponde alla zavorra del sub: li aiuta a penetrare negli abissi opachi del mondo, a cui aspirano per genuino desiderio di conoscenza.

Quegli stessi saperi, per altri, si traducono invece in uno scafandro, che dopo averli accompagnati in profondità lì anche infine li trattiene, come prigionieri dei troppi libri letti. Una condizione simile a quella descritta da Platone nel mito della caverna: si guardano in giro pensando che siano quelli i fondali marini, ma si tratta invece della tappezzeria dello scafandro. Sempre più chiusa, opprimente. Ma soprattutto senza la sferzata di una ventata fresca e vivificante di ossigeno.

Abbiamo quindi i veri superficiali, su cui non è nemmeno il caso di ritornare. Sono superficiali e basta, dicono cose superficiali, balbettano la loro esistenza dentro una lingua semplificata ed imitativa, che ricavano dalla figure prevalenti del consenso e dello svago. Ma di questa esistenza piccina piccina, in fondo, si accontentano.

La palma della mia simpatia va infine ai "superficiosi". Uomini e donne che sembrano trascurare gli abissi del pensiero, la concentrazione intellettuale. Eppure sono tutto all'opposto che superficiali. Non si affidano infatti a uno dottrina estrinseca o imposta, ma provano a guardare le cose negli occhi di volta in volta. Sì, stanno in superficie. Ma solo perché hanno compreso che nel finale del Piccolo principe si annida un luogo comune pericoloso, di quelli che piacciano tanto alle persone che si stimano profonde.

Loro sanno che l'essenziale è invece ben visibile agli occhi. E come Spinoza confidano nei saperi artigianali, nell'arte sottile dell'ottico. Quindi semplicemente provano a mettere a fuoco.

1 commento:

  1. molto interessante ed anche utile questa tua rivisitazione del tema profondità e superficialità! Mi piace, mi conferma nel pensiero che bisogna avere del coraggio per essere "leggeri", per affrontare i, chiamiamoli, fenomeni, senza scudi ovvero visioni del mondo e idee precostituite. Mi piace anche il tuo invito a non cadere nella trappola così diffusa delle pie illusioni alimentate dal piccolo principe.
    Non mi ricordo chi l'ha detto ma temo che sia drammaticamente vero: il massimo della profondità corrisponde con il massimo della superficialità. Nessun noumeno dietro ai fenomeni, nessuna essenza in sé e per sé che non si incarni e non traspaia in qualche forma riconoscibile da chi ha coltivato l'arte del mettere a fuoco.
    E' una pratica, nel senso in cui ne parla Simone Weil: qualcosa che passa dal corpo, che richiede intelligenza, attenzione, pazienza e umiltà.
    Una fatica immane.

    Luisa

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