mercoledì 14 luglio 2010

La creatività fa male, o sulla deriva dei continenti linguistici


Io penso che la creatività faccia male. Ecco, lo scrivo subito e non ci penso più. Sono convinto faccia male, meglio, lo stupido pregiudizio per cui dentro ognuno di noi riposi sepolto un tesoro esclusivo di parole, immagini, emozioni, pensieri, stati d'animo di cui il mondo merita di essere al più presto informato – per mezzo della creatività.

E così ci si improvvisa poeti, artisti, fotografi, letterati. Quindi si corre a postare orgogliosi le proprie creazioni su internet; altri te le affidano in mano trepidanti rivendicando un giudizio in fondo già scontato, almeno nella loro testa: “Che immagini originali e suggestive, come sei creativo!”

Una volta un tale che voleva a tutti costi che io leggessi le sue poesie, alla domanda su quali fossero i poeti che a sua volta frequentava, mi rispose seraficamente: “Io non leggo gli altri poeti, mi influenzerebbero, mi corromperebbero. Io sono un poeta, un creativo. Non un lettore”.

E io sono uno a cui i poeti tanto puri, tanto incorruttibili, stanno sui coglioni, avrei dovuto rispondergli. Uno sprovvisto di enzimi per digerire i creativi. Tutti. Indistintamente. Compreso le nuove istituzioni mediatiche, che allungano la corda a questa incalzante tendenza tardo-moderna. La creatività.

In una bella serie di lezioni radiofoniche, Giuseppe Pontiggia ricordava come per i latini il termine creatività non avrebbe avuto alcun senso. Un tempo gli artisti non creavano infatti i loro contenuti, che erano il frutto, nella percezione diffusa dell'impulso immaginativo, del suggerimento delle Muse. Ossia inventavano, che sta a significare che semplicemente e letteralmente li trovavano.

(Inventare, dal lat. invéntus, participio passato del verbo invenire: trovare, scoprire cercando, e propr. giungere a qualche meta.)

Ma se le immagini, i temi e le suggestioni non sono di esclusiva pertinenza dell'artista, ciò significa che il suo merito personale va limitato alla cura e alla sensibilità dell'esecuzione. Cioè al suo lato pratico, che i latini facevano coincidere con l'arte tout court, una sorta di perizia del fare.

Il termine creatività ha dunque la sua legittimazione non in campo estetico, ma teologico. Nella tradizione giudaica e poi cristiana, si fa strada l'idea di una divinità che cava dal nulla le cose – “creatio ex nihlo” - per poi consegnarle ancora umide e scintillanti al mondo, come il nuovo giocattolo del bambino.

Anche nella moderna fisica delle particelle è presente l'idea di una realtà ultima in continuo stato di ebollizione, dove ciò che è, gli “essenti” si potrebbe dire con una terminologia filosofica, rampolla misteriosamente dal nulla, prima di esserne nuovamente riassorbito.

L'universo sarebbe dunque anch'esso creativo, e ciò sembra legittimare la diffusione inarrestabile del termine. Con una differenza, piccola, ma decisiva. Quella che l'universo non corre immediatamente a postare le proprie creazioni su Facebook, ma le sottopone prima al vaglio dell'evoluzione, al collaudo dei secoli.

E' forse la differenza che passa tra il termine già incontrato di arte, ars, fare, alla semplificazione spontaneista che soggiace a ogni maldestro tentativo. Un'opera d'arte sarebbe insomma un'opera meditata, verificata attraverso una comune e vigile esperienza. Che in campo artistico corrisponde a una percezione più lucida e viva di ciò che è, contribuendo allo stesso tempo a mostrare ciò che potrebbe essere.

Ma se accettiamo questa sfumatura concreta e fattiva, che non nega l'emozione e la sensibilità personali ma le ancora a una percezione più estesa e transitiva del processo espressivo, ci avviciniamo anche alla radice di quello che io trovo essere l'equivoco contemporaneo. Ciò che viene disinvoltamente rubricato alla voce creatività, coincide, in effetti, non con una sfumatura teologica della prassi, ma con una diversa categoria linguistica: la velleità.

Proviamo allora, anche solo per gioco, a volgere in questo diverso modo alcuni tra i molteplici utilizzi del termine creatività, specie nella sua funzione aggettivale. Le scuole di scrittura creativa, ad esempio. E se fossero invece, magari non tutte, d'accordo, se non fossero altro che scuole di scrittura velleitaria?

Oppure i pubblicitari, almeno quelli che orgogliosamente si definiscono creativi, immaginiamoli magari un poco indulgendo allo stereotipo – occhiali in celluloide fucsia e abiti dalle fogge variopinte e bizzarre - che così si presentano a un primo incontro: “Piacere, mi chiamo Tal dei Tali e sono un velleitario”.

Torna alla mente una vecchia intervista a Federico Fellini, in cui raccontando l'origine del soggetto della Dolce vita, scaturito come noto da una collaborazione con Ennio Flaiano e Tullio Pinelli, con vocina sorniona così lo sintetizzò: “E' la storia di una certo Guido, di professione velleitario”.

O sarà che anche io mi chiamo Guido, e che mi interesso di scrittura, di narrazioni, tanto da essermi spesso interrogato su quel che faccio, non senza una punta di disagio. Intendo dire, come faccio a sapere se sono un narratore o un velleitario...?

L'unica risposta, per quanto provvisoria, che alla fine mi sono dato, è che velleitario è colui che non è disposto (o forse non ne è semplicemente capace, non ci pensa) a verificare la propria intuizione dentro un orizzonte di saperi costituiti, di vagliarla per mezzo di una consapevolezza che discende da una tradizione viva.

Questa facoltà di scegliere e discernere tra diverse possibili opzioni, ancora ci rimanda all'invenzione, il termine latino da cui siamo partiti. La differenza che passa tra un creativo e un inventivo è dunque quella che passa tra chi si pensa al centro del mondo, come l'ombelico di Brahma da cui sboccia il fiore di ogni cosa, e chi invece sa che dall'altra parte del confessionale ci sta sempre qualcuno; le Muse, un canone artistico, la felice e necessaria influenza dei maestri, a guidare ogni nostro timido e goffo passo verso la pienezza espressiva.

Che senza tale aiuto resterebbe sempre e solo quel che è: pura velleità.

1 commento:

  1. la proliferazione degli "editori a pagamento" è un brutto segnale: creatività e protagonismo a tutti i costi.

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