La vicinanza temporale tra la morte di Armani e quella
di Robert Redford hanno accesso una lampadina del mio cervello. Ho sempre
trovato curiosa la celebrazione dei personaggi pubblici sui social al momento
della loro scomparsa – ciao ragazzo viene scritto a margine di una foto
giovanile di Redford, eri il più bello di tutti aggiunge un’altra donna.
I maschi, più cauti, sottolineano i meriti artistici e l’impegno per
l’ambiente.
Non che io sia esente dagli stessi slanci
commemorativi. Ho partecipato, a modo mio, al commiato di Jane Birkin e a
quello di Francoise Hardy, la mia voce era intonata al coro. E poco importa che
mi sia astenuto con Emilio Fede e Alvaro Vitali, ognuno ha le sue ipoteche
affettive. Ma pur essendo interno al fenomeno continuo a non comprenderlo: a
quale economia psichica offre risposta, esiste forse uno schema antropologico
ricorrente?
Per i funerali è la comunità che si stringe accanto ai
famigliari, facendogli sentire sostegno emotivo e solidarietà concreta. Aspetti
che nei secoli hanno un po’ perso di sostanza – non so quanti sarebbero davvero
disposti a fare qualcosa nel caso di bisogno… – ma il rituale funebre rimanda a
strutture sociali antiche e coese, e come in tutti i riti la ripetizione
afferma un modello astratto con l’intento di tradurlo in realtà, poco importa
che ci riesca o meno. Ma mi chiedo a chi, su Facebook, importi dei quattro
figli di Robert Redford, due dei quali morti prematuramente, o delle belle e
ricchissime nipoti di Giorgio Armani.
Escluderei dunque la funzione tradizionale di sostegno
ai congiunti e affermazione dei valori della polis. La morte può perfino
dividere, lo stiamo vedendo in questi giorni: stai dalla parte di Charles Kirk,
ucciso da un giovane sciroccato che aveva fatto incidere sul proiettile la
scritta Bella ciao, o di Martin Luther King – ma che cazzo di domanda è?!
Eppure è proprio al culmine del non senso che ci viene
in soccorso un indizio, ce lo offre il sistema della moda di cui Armani era il
massimo esponente. Qualcuno se lo ricorda l’aquilotto in pelle cucito sui jeans
Armani negli anni Ottanta? Stava a marcare le chiappe, era l'equivalente umano
della segnatura a fuoco sulle anche dei bovini, indicando appartenenza, da
ottenere attraverso una preliminare separazione. Per essere uguali a qualcosa
bisogna infatti essere diversi da altro, o meglio altri.
Il sotto testo così diventava: io non sono mica uno
sfigato che indossa jeans Carrera – costavano un quarto ed erano identici –, ma
grazie a un volatile stilizzato mi iscrivo a una comunità superiore del gusto,
una nuova congregazione giovanile stilosa e disimpegnata. Richard Gere in American
Gigolò era il riferimento e Armani il sacerdote che celebrava
l’investitura.
Poi era tutto da vedere se fosse vero, però, alla
stessa maniera della pisciatina dei cani sui paracarri, la firma sugli abiti
degli stilisti comunicavano identità presunte, ci faceva sentire parte di un
insieme in cui era bello riconoscersi. Ecco, Robert Redford ha la stessa
funzione dell’aquilotto sui jeans Armani: io sono quello che si è commosso con
i film di Robert Redford, io sono quella che si è innamorata guardando Apiedi nudi nel parco…
Ma allora siamo simili, vestiamo gli stessi indumenti affettivi, ci piacciono le stesse cose. Secondo Slavoj Žižek, è il godimento e non più il trauma a segnare nella tarda modernità i confini delle identità collettive. E così ti chiedo l’amicizia sui social, stringiamoci a corte, siam pronti alla morte – non mai alla nostra, ma quella del prossimo personaggio pubblico che verrà a mancare. Una comunione simbolica non troppo diversa dal capannello dei paninari davanti al Burghy di piazza San Babila: loro si riconoscevano, negli anni Ottanta, dalle Timberland e dal Moncler arancione, noi quasi mezzo secolo dopo ci riconosceremo dai cuoricini deposti sotto una foto giovanile di Robert Redford.

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