giovedì 8 luglio 2010

Colabrodo, o sulla fenomenologia della chat


Ho provato perfino a battezzarla, senza riuscirci. Eppure quella che sperimento è una sensazione diffusa, quotidiana e per nulla drammatica, come se la scodella che ci contiene fosse divenuta all'improvviso un colabrodo, e da piccoli forellini chiunque potesse penetrarci in ogni momento.
E' sufficiente accendere il computer, collegarsi a un social network come facebook, e dopo pochi minuti un qualche conoscente, anche virtuale, si farà vivo con la finestrella della chat.
Farsi vivo, ecco. Un'espressione logorata dall'utilizzo, ma che in questo caso mi sembra recuperare la sua originaria pertinenza con le cose. Non sono infatti delle richieste di informazioni, o l'offerta di una generica conversazione, quelle che provengono da questi nostri conoscenti che ci inchiodano alla presenza, qui, ora, o piuttosto ora e in nessun qui, ma vere e proprio manifestazioni di vita.
Ciao, cucu, come va, disturbo... Espressioni che normalmente segnalano la disponibilità a un dialogo, o ancora meglio servono a stabilire e mantenere un flusso comunicativo attraverso interiezioni, ammiccamenti verbali, su internet è come se acquisissero una consistenza autonoma. Più che uno specifico contenuto informazionale, tali espressioni segnalano infatti una disposizione psicologica, una sorta di cornice alla comunicazione vera e propria. Ciò che nella teoria linguistica viene chiamata “funzione fatica”. Ossia, letteralmente, un parlare (“fari”) per parlare, un segno che ha in sé il suo unico riferimento, quasi fosse la prova tecnica del microfono prima della canzone.
Il problema è che la canzone per cui vengono fatte infinite prove, poi non arriva mai.
Al tempo della comunicazione di massa, capillare, diffusa e vincente, c'è dunque da sospettare che si accompagni una corrispondente ansia d'abbandono informativo, che muove alla richiesta di continue riconferme sulla vigilanza dell'interlocutore. O meglio, non dell'interlocutore ma di “un” interlocutore, uno a caso, purché disposto a confortarci sulla sua semplice e sola presenza, quanto e forse soprattutto sulla nostra.
Vengono alla mente le immagini di certi film di fantascienza del dopoguerra, dove, al seguito di un invasione aliena dallo spazio, un uomo si aggrappa urlando alla cornetta del telefono: “Hei, c'è qualcuno, c'è nessuno dall'altra parte?!”
Ma quando l'inquadratura si allarga in uno zoom indietro, il totale restituisce l'immagine di quello stesso uomo mutato in un grosso insetto peloso. Sì, è ormai diventato un alieno anche lui.
Ciao, cucu, come va, disturbo...
Un formulario alieno, proviamo allora a vederla a questo modo, distante dalla sottigliezza garbata di una lingua scritta ma ugualmente dalle sfumature vocali del parlato. Come se la chat riuscisse a sintetizzare il peggio dell'oralità e della forma grafica, realizzando la formidabile impresa di azzerare qualsiasi sforzo di conferire significato, ma anche patos, emozione, a quel che stiamo dicendo.
Eppure in questa vitalità senza sangue, in questa semiosi senza oggetto, anche la lingua della chat ha forse qualche specifica attinenza. Uno strumento dove il grottesco diviene plausibile, in cui la blatera non causa più vergogna. E in cui l'erotismo infantile riacquista familiarità dentro le nostre esistenze sempre più disincarnate.
Di che colore hai le mutandine, qual è la taglia del tuo reggiseno...? Frasi di questo tenore, da manga erotico giapponese, diventano moneta corrente dentro le chat, specie tra sconosciuti. Senza la verifica dell'esperienza, la fantasia può sfrenarsi nella forma che gli è più congeniale: quella del fumetto.
Ma questo è in fondo un caso particolare, che ci allontana dallo stanco dilagare delle frasette di circostanza appena descritte. All'inizio ho provato anche a prendere sul serio tali approcci, interpretandoli come offerte di dialogo, epifanie umane all'interno di una pigra routine tecnologica. Così pure io mi aggrappavo alla cornetta, sì, c'è qualcuno dall'altra parte, roger roger, ma ne ricavavo un senso di frustrazione crescente.
Nessuno aveva realmente qualcosa da dirmi, nemmeno persone che avevo frequentato, perfino amato in alcuni casi, e che ora mi restituivano una formuletta logora per intercettare il mio tempo, senza la corrispondente disponibilità a occupare la mia attenzione con un racconto, o anche solo con lo sguardo vigile di chi abbia ancora voglia di essere stupito, dirottato dall'immobile certezza del presente.
Una chat si risolve allora e il più delle volte in questo: pura dissipazione verbale, perdita di tempo e di concentrazione su uno specifico argomento, ciò che una volta si sarebbe chiamato tema. In un orizzonte che, a questo modo, si fa davvero orizzontale. Quello del colabrodo che non trattiene nulla ma tutto lascia filtrare, anche i fili della pasta che sgusciano fuori come tanti vermetti neghittosi, in fuga verso la terra promessa dei buongustai.
Mentre il sugo è altrove, sempre altrove, e qui continuiamo gocciolare parole in una lingua dietetica e scotta.

2 commenti:

  1. condivido la riflessione su quella che si può chiamare la fenomenologia del presente e a volte mi vien da pensare che, rispetto alle nuove, inaspettate potenzialità dei mezzi di comunicazione che caratterizzano la nostra epoca ci stiamo comportando un po' come delle scimmie che cercano di capire a che cosa serva e come si utilizzi, che ne so, un ombrello. E allora ci giochiamo, proviamo, facciamo dei tentativi, come dei bambini che si stiano trastullando con un nuovo giocattolo. Credo che tutte le rivoluzioni tecnologiche che hanno segnato la storia dell'umanità siano state accompagnate da un iniziale senso di smarrimento e sotto-utilizzo delle loro, come dire, più efficaci e sensate modalità di utilizzo. Per il momento siamo tanto assorbiti dallo sforzo di comprendere che senso abbiano questi mezzi che ci permettono di comunicare con tutti e su tutto in tempo reale che perdiamo di vista il senso stesso del comunicare: ovvero avere qualcosa da dirsi, il che non è, e non credo sia mai storicamente stato, nè scontato, nè necessario, nè auspicabile.
    Luisa

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  2. Luisa, mi piace l'immagine della scimmia che, per tentativi, approssimazioni, si accosta a un ombrello. da piccolo, insieme ai genitori, ricordo una gita al tristissimo zoosafari di fasano, in cui branchi di scimpanzé si arrampicavano sul cofano delle autovetture, a cui avevano imparato a svitare la plafoniera dei fanali. ecco, per loro la fiat ritmo di papà era evidentemente una specie di lego da smontare, da rimpallarsi poi uno con l'altro. ma se noi decostruiamo una chat, mi viene ora da pensare, che ce ne facciamo dei pezzi...? almeno con una plafoniera ci puoi giocare a frisbee, e con un ombrello volare via, sopra gli emoticon, i sorrisini, i "che taglia porti di reggiseno"... volare via come mary poppins!

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