domenica 2 luglio 2023

È qui la festa?


A messa si va con l'abito buono, della festa lo chiamava mia nonna. Mentre per zappare l'orto puoi anche non riguardarti allo specchio. Nel mondo contadino c'è la dimensione festiva, diversa da quella pubblica della borghesia, dove il controllo formale è censura, superfici indorate e stagno alla polpa. Per il contadino è bellezza e rispetto, da opporre alla disinvoltura feriale. Una lezione acquisita con il solo esempio delle domeniche trascorse in campagna dai nonni materni, e da me replicata nell'unica forma di ritualità che ancora pratico. La scrittura.

Mi fa un po' ridere rileggermi prima di pubblicare un post su Facebook, scovare e rimuovere ripetizioni, fare editing insomma. Ma tant'è: abitudine. Per quanto sia consapevole che, con la funzione religiosa, i social condividono solamente il richiamo ai fedeli; un muto suono di campane, ding dong ding dong... Eccomi di nuovo qui!

Quando accompagnavo la nonna nella chiesetta di Montagna piano (nome che mi è sempre è parso un ossimoro), intravedevo negli occhi delle altre donne una richiesta ugualmente muta, da rivolgere all'altare. Non so dove fossero i maschi, forse all'osteria, ma potrei giurare che anche il loro sguardo domandava qualcosa al bicchiere. Se avessero avuto ciò che manca, ognuno una propria voragine da colmare di vino, le donne di Pater noster, ave Maria piena di grazia il Signore è con te, mi chiedo, ci sarebbe stata ancora una festa? E io starei scrivendo queste parole, che quasi nessuno leggerà?

Forse ho sbagliato paragone, ho sbagliato tutto. Questa casa non è un albergo e neppure un'osteria, come ricordano le madri ai figli adolescenti, non è la messa domenicale ma il gesto largo della mano, con cui la nonna distribuiva il becchime per i polli. Si può però fare di meglio. Dai, riprova mi incalza la vocina dell'editor interno, cerca un paragone migliore. Le galline accorrevano infatti con la loro camminata sculettante, smettendo di razzolare nell'aia alla ricerca di lombrichi, mentre sui social ognuno fa pietanza a sé, è l'uroboro che pasteggia con la propria coda.

Giro allora la domanda agli altri, mettiamo alla bella ragazza sovrappeso che non passa giorno nel quale non ricordi, su Facebook, la sua antica taglia 36, da opporre al dilagare presente delle carni. Perché lo fai vorrei chiederle, se per incanto tu dimagrissi all'improvviso – e vedrai che succederà, porta solo un po' di pazienza – proveresti sempre il desiderio di ostensione che ti affligge, pronunceresti ancora il tuo prendete e mangiatene tutti, questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi?

Una risposta che naturalmente non può arrivare. In fondo non escludo che ci siano anche persone più conciliate; non vorrebbero stare da un'altra parte come me, magari su una poltrona-materassino in una piscina di Miami, sorseggiando daiquiri alla banana. C'è chi semplicemente mal sopporta che quel tal scrittore di talento non abbia successo, e quell'altro, diciamo Fabio Volo, invece eccome che ce l'ha. Qualcosa di sbagliato si trova sempre da puntare con indice severo, e qualcosa di giusto da rivendicare. Sono pur sempre mancanze, ingiustizie per cui chiedere redenzione a un dio che latita.

Ma la peggiore ingiustizia a me appare non ammetterlo. Che andiamo su un social per vendere pentole – e va benissimo, se quel docente di scrittura creativa pagasse la pubblicità ai suoi corsi gli costerebbe una fortuna, su Facebook invece è gratis e giustamente ne approfitta – oppure per battere i coperchi, fare casino. In una circostanza e nell'altra ciò che difetta è la pietanza. Come in un koan zen, il contenuto è lo spazio vuoto della scodella.

Torna così l'immagine iniziale: il vestito, la festa. Non è troppo diverso dal fruscio leggero di un abito ben scelto, con cui la donna ingioiellata si è presentata al party in terrazza; si scorgono i televisori accesi dei poveri chiusi in casa davanti alla Domenica sportiva, i lampeggianti delle auto della Polizia. L'apparente noncuranza con cui lo indossa, Guarda, è la prima cosa che mi è capitata sottomano, risponde la donna a chi le fa i complimenti. In alternativa, si chiedeva Nanni Moretti: "Mi si nota di più se vengo e sto in disparte, o se non vengo proprio?"

Ma ecco il punto. A me sembra che questa sia una festa proclamata ma sempre rimandata, una guerra in cui dalla canna delle pistole esce la scritta BUM; cosa che nel tempo presente andrebbe anche bene. La conta dei morti ammazzati da pallottole di indifferenza non è difficile, eppure si fa fatica a chiamare vittoria la conquista di un colle che non esiste, per quante bandierine tu riesca a conficcarci sopra. Si chiamano like, ma non cambia molto.

Se non altro, se ti buttava bene, a una festa vera potevi sempre rimorchiare, tornare a casa in due sul sellino singolo del Ciao. Oppure ubriacarti dopo avere fatto combutta con la servitù, come capitò quando mi imbucai nell'attico di Gil Rossellini; un cameriere ivoriano trafugava per me le bottiglie migliori. Da sbronzo passai tutta la serata fingendo di frequentare il Pontificio Seminario Romano Maggiore. Lo dissi anche a Fernanda Pivano, che indossava un abito lungo di lamé. Forse un altro ossimoro.

L'ultima domanda che mi faccio, poi giuro ho finito, è cosa potrebbe accadere di diverso, dando per assodato che fino ad adesso la comunicazione sui social si è prodotta in un unico solipsistico verso. Perché ad esempio schifare chi ti manda messaggi privati su Messanger, addirittura pubblicarne la videata? Che cosa triste. A una festa non grideresti mai, Ehi, ascoltatemi tutti, quel signore anziano mi ha sussurrato che ho delle gambe che nemmeno sua moglie a vent'anni c'aveva delle gambe così... Non dico che lo ricambieresti, ma fa parte del gioco.

Un gioco che a me appare sempre uguale: l'infelicità certa e la felicità ugualmente impossibile, se non in forma di surrogato verbale. Se fossimo gli scrittori o i poeti che molti di noi dichiarano di essere, staremmo scrivendo libri, non mendicando la lettura del primo bislacco malumore che ci passa per la testa, o fotografando il placido sonno del gattino; è così simile a quello ragione ma non partorisce mostri, solo cuoricini. Certo, si possono fare le due cose. Anche la nonna zappava l'orto e andava in chiesa, ma con abiti diversi.

Mi piacerebbe allora che i social fossero un luogo del tutto anonimo, oltre all'assenza del nome anche quella della professione, solo parole e immagini senza riferimenti biografici. Fantasmi. Una tristezza assoluta, quella che già intravedo tra le righe, ma anche una gioia ugualmente priva di mediazione, sorgiva e folle. Uno potrebbe dichiarare: Ce l'ho fatta, ce l'ho fatta! Sarebbe però vietato dire cosa, escluso ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti. Ce l'ho fatta e basta, al lettore il compito di immaginare il complemento oggetto.

Tra le possibilità astratte, quella di trovare una porticina defilata, come fa Jim Carrey al termine di The Truman Show. Abbassare la maniglia. Aprire. E poi dire a Fernanda Pivano: Scusa, non è vero che sono un seminarista, nemmeno sono sicuro che da qualche parte ci stia un dio barbuto, a cui inginocchiarsi per sbirciare meglio sotto la gonna delle donne. E poi abbracciare il cameriere ivoriano, e ringraziarlo per tutto il vino buono che ti ha servito.

2 commenti:

  1. Sono nato in un piccolo paese del sud e me la ricordo bene quella “dimensione festiva…da opporre alla disinvoltura feriale” da parte di chi lavorava la terra. Ma la cosa che più mi stupiva – all’epoca – non era tanto il vestito buono del contadino indossato per andare alla messa domenicale o per chiacchierare davanti al bar, quanto il pigiama esibito quasi con sprezzo dal signore del paese il giorno stesso della festa. Ebbene, questo signorotto, che faceva il maestro elementare (un’indiscussa autorità in un tempo in cui pochi sapevano leggere e scrivere in un paese), nel giorno dedicato alla preghiera e allo svago domenicale lui si faceva vedere mentre zappava l’orto in pigiama. Un modo, questo, per distinguersi dai cafoni vestiti a festa che esibivano sé stessi nella piazza del paese, quel salotto buono della mia infanzia. Quella piazza, oggi, non esiste più; quel “ci vediamo in piazza” di antica memoria è stato, ormai, soppiantato dal moderno “ci vediamo su facebook”. E su facebook ognuno esibisce il vestito della festa, un po' stropicciato, che sa di naftalina. Ma nessuno ha il coraggio o la sapienza di presentarsi in pigiama mentre zappa l’orto. Io non sto sui social e non posseggo neanche il telefonino. Lo so: sono un disadattato. Posso solo immaginare l’effetto che fa e non posso aspirare a quella felicità “in forma di surrogato verbale”
    Ti saluto

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    1. È molto efficace l'immagine del notabile che si esibisce in pigiama nel giorno festivo, per distinguersi dai "cafoni" ripuliti e profumati nel giorno dedicato al Signore. Grazie!

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