venerdì 20 agosto 2021

Paralimpiadi, o sull'agonismo come sopraffazione

Si aprono martedì 24 agosto i Giochi paralimpici di Tokyo. Non è possibile, e forse nemmeno utile, avere un’opinione su tutto, ma sugli sport agonistici per disabili ho sempre provato un certo imbarazzo, non riuscendo a formarmi un giudizio definitivo.

Da una parte mi sembra una cosa bellissima. Una persona subisce la vita, cade, viene abbattuta dalla sventura. Ma reagisce. Si rialza. E attraverso l’attività sportiva, che della vita è una celebrazione, rientra nel respiro primordiale; quel fiatone che certifica l’esistenza nello spazio e nel tempo accelerato di sistole e diastole, che gli fa da contrappunto ritmico.

Sarà forse l’aggettivo, agonistici, sport agonistici, a frenare una mia adesione piena. Nell’agone viene infatti premiato il più forte, o, in una prospettiva darwiniana, il più adatto – ma adatto a cosa? Di nuovo alla vita, mi appare evidente.

Come nei giochi tra i cuccioli degli animali, gli sport si sviluppano nella forma di apprendistato e ricapitolazione. E sono le qualità essenziali alla sopravvivenza a essere collaudate: picchiare il nemico, correre per scappare o cacciare, saltare in alto, più in alto di tutti, per cogliere un frutto che agli altri sfugge, o sottrarsi all’assalto di una belva feroce. In sintesi: affermazione di sé a danno di un altro, anzi molti altri, gli sconfitti.

Ma il termine giusto non sarà allora sopraffazione? Secondo la psicanalisi, sopraffazione sublimata per non essere agita. Da qui la sospensione di ogni conflitto durante i giochi di Olimpia – ci sarà tempo per scannarsi di nuovo, l'arrotino accosta alla mola la xiphos dell'atleta per quando tornerà a essere oplita.

Chi vince è colui che per analogia si riproduce – le femmine si offrono all’accoppiamento con il cervo uscito vincitore dallo scontro, quello che ha sferrato le cornate più robuste e tenaci – e una famosa canzone degli Abba lo rimarca nel refrain: the winner takes it all, tutto si prende e, al secondo classificato, resta solo il desiderio di riprovarci. Riprova e sarai più fortunato, come stava scritto nella cartina del chewing gum.

Ma qual è il tutto, mi chiedo, che una persona portatrice di handicap si prende, potrà mai essere il maschio alfa e non la surroga di una rimozione collettiva, in cui a essere oscurata è la radice animale dello sport? La nudità del re viene così rivestita con l’abito delle buone e solidali intenzioni. Come a dire senza dirlo: poverini, hanno diritto a essere anche loro come noi. Facciamo finta che.

Viene insomma attuata una pratica mimetica non meno che volontaristica. Anche in questo caso la lingua anglosassone offre la sintesi migliore: yes you can. If you want, you can. Peccato non sia vero. Se hai perso l’uso delle gambe non puoi camminare, e al limite solo mostrare, a chi si trova nelle tue condizioni, di essere più vicino di lui alla "normalità", a quel cuore oscuro della vita per cui l’animale azzoppato viene abbandonato dal branco.

Ma della due l’una: o si è solidali e accoglienti verso chi si trova in uno stato fisico di minorità, o ci si affida a leggi non tanto immorali ma premorali, ossia anteriori al processo di civilizzazione, e si volge infine il pollice in basso nei confronti del perdente. Avanti i leoni del Colosseo!

Le paralimpiadi, come tutti gli sport agonistici per persone disabili, si offrono così nella figura linguistica dell’ossimoro, o se si preferisce nella struttura della tragedia greca. Un dover essere che si contrappone a un non poter essere. Domanda. Nel nostro moderno caso, ci è data una via di uscita al vincolo tragico, o siamo condannati a ripeterne lo scacco in eterno?

A me sembra di sì, ma a patto, appunto, di liberarci dall’atteggiamento agonistico, una controfigurazione della gerarchia evolutiva in cui disporre l’umano per gradi di potenza, watt. Più sei potente e più ti sentono e guardano tutti, come le Golf ferme al semaforo con i finestrini abbassati, l'autoradio a palla.

Che sia allora lo sport unicamente sport, senza gara, competizione, senza sommersi e salvati. Solo il piacere di una persona offesa dalla vita di tornare alla vita nella sua forma incarnata. Non mancherà per questo la nostra attenzione partecipe, non abbiamo bisogno di essere sedotti da alcuna prodezza. L'importante è partecipare. Ma non alla gara, bensì al gesto di esistere al netto della simbolica di sopraffazione.

Diversamente, sarà inevitabile ripensare alla sequenza conclusiva di un film della serie Amici miei. Il conte Mascetti, interpretato da un ormai anziano Ugo Tognazzi, è condannato sulla sedia a rotelle per via di un ictus, e viene iscritto a una gara per persone nella sua stessa condizione. Gli amici di sempre sono sugli spalti a fare il tifo: “Oh dai Mascetti, che codesti bischeri te l’inculi tutti!”.

Ecco il colpo di pistola, si parte! Il conte decaduto smanaccia sulle ruote di gomma piena, fa del suo meglio, arranca, il cappellino da baseball e la bocca tirata da una parte; ma il divario tra lui e gli altri concorrenti continua ad aumentare, è ultimo. La regia di Monicelli fa ora un primo piano, anzi primissimo sui suoi begli occhi nocciola, da cui iniziano a sgorgare lacrime. Perché anche tra chi la vita ha lasciato indietro, c’è chi è più indietro degli altri.

2 commenti:

  1. Ohi ma partono il 24 e me li fai chiudere già il 25?!? Io li ammiro invece, ci donano la forza per superare le nostre sciocche contrarietà quotidiane, e la maturità e la saggezza per affrontare quelle serie, toste, che ti cambiano la vita.. dovrebbe essere un solo partecipare anche per i Giochi normali, a ben pensarci, ma ben venga la competizione, il sentirsi protagonisti, sarebbe un altro atto discriminatorio, che non si potesse vincere ad essere disabili.

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    1. Avevo sbagliato - ho corretto - partono il 24. Grazie!

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