Sono
stato a pochissimi rave, ma mi sono sempre divertito – alle nostre latitudini,
gli unici luoghi in cui puoi ancora imbatterti in Shiva e Dioniso, magari in
forme un po' caricaturali. Non ho dunque alcun pregiudizio al riguardo, ma
trovo fuori fuoco l'ennesimo contrapporsi per fazioni (ringhianti) che segue al
rave di Viterbo.
Le critiche sono note e diffuse – i
raver brutti sporchi e cattivi, semplificando. Ma soprattutto molto, mooolto
drogati –, e mi concentrerò sulle apologetiche. Ha alimentato la discussione un
post su Facebook di Loredana Lipperini, che affianca al suo svelto commento un
reportage documentato e puntuale, è possibile trovarlo qui.
Un testo che possiede molti meriti, primo fra tutti evidenziare un vizio diffuso
nell'informazione al tempo di Internet, sempre più di frequente solo
pettegolezzo travestito.
Nel finale inciampa però nelle stesse
manchevolezze che denuncia, facendo coincidere, con uno sciatto cliché, i due
stupri lì forse avvenuti (un reato penale odioso) con il patriarcato (un
retaggio antropologico certamente deprecabile, ma non di rado alimentato dalle
donne che quella sottocultura hanno introiettato e quindi trasmesso), e
collocando infine l'equivalenza spuria in un contesto che viene definito
"libero". E perché mai un rave dovrebbe essere più libero di un
circolo scacchistico, o di un dopolavoro ferroviario?
Da simpatizzante dei rave party, a me sembrano semplicemente un giochino estetico, che fa cioè leva, letteralmente, sui sensi, da disarticolare e accendere nella forma di un godimento che non ammette dilazioni prospettiche, solo presente e svago tipico di quella società che un tempo si sarebbe detta affluente. Ma ora va progressivamente impoverendosi, trasformando la perdita in rancore perbenista o rimozione edonista – e cos'è un rave, se non un collettivo e sovraeccitato standby, una sospensione adrenalinica in ciò che Hegel chiamava coscienza infelice? I termini libero, libertà, liberazione, li lascerei dunque ad altri aspetti dell'umano.
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