Lo scrittore Giulio Mozzi, in un'intervista di molti anni fa, disse che "scrivere senza leggere è come pretendere di essere amati senza amare".
Mi è tornata in mente
questa bellissima istantanea verbale a proposito di Facebook. Confesso di
averlo fatto anche io: richiedere l'amicizia solo perché me lo suggeriva il
famigerato algoritmo. Magari la persona in testa all'elenco dei papabili
possedeva una biografia professionale da primo della classe, interessi e amici
comuni, bastava in taluni casi un bel musino. Ma poi finiva lì, dopo una prima
distratta scorsa al profilo si esauriva il mio interesse. Io non leggevo lui, o
lei, insomma loro, e loro non leggevano me.
Il più delle volte
non c'era nemmeno bisogno di imbattermi in proclami contro la "dittatura
politico-sanitaria", oppure foto del figlio palestrato di fronte
all'ingresso di Casa Pound, il gattino che fa le fusa, cose così, ma era il
semplice effetto di un fisiologico processo di erranza della curiosità, che fa
il paio con quella del desiderio. Desideravo, in altre parole, che i miei post
venissero letti e magari amati nella forma infantile di un like, senza
ricambiare la lettura e l'amore. E come me, sospetto la maggior parte degli
utenti di un social network – in numero ancora maggiore, ho ricevuto richieste
di amicizia destinate al medesimo reciproco oblio.
Tutto ciò, più che un’indicazione
sulla natura della tecnologia, mi suggerisce un dubbio su quella umana: forse
davvero siamo una specie che desidera essere amata senza amare, come adombra la frase di Giulio Mozzi. Perciò scriviamo con sempre maggiore accanimento di ogni cosa, ma
pochi diventano scrittori, o meglio bravi scrittori e cioè lettori. "Sono
più orgoglioso dei libri che ho letto che di quelli che ho scritto",
aggiungeva un altro famoso scrittore. Gli altri, scrittori o semplici
scriventi, sono impegnati a interrogare lo specchio di Grimilde: "Specchio
specchio delle mie brame, chi è il più amabile del reame?” La risposta, amico
mio di Facebook, is blowin' in the wind.
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