mercoledì 2 dicembre 2020
Lino Ventura
Nei
giorni scorsi, approfittando del Black Friday, ho acquistato un profumo. L’ho
preso così, al buio (blind buying lo chiamano gli anglosassoni),
solo perché scrivevano nella descrizione che è ispirato a Lino Ventura. Il
corriere me l’ha consegnato oggi. Ho aperto il pacco con prudenza. Sul dorso
della mano, più facile da annusare, ne ho spruzzata una nuvoletta. È vero,
è comparso Lino Ventura. Il suo odore. Quello di Gitanes senza filtro accese da
uno zolfanello, inseguimenti su una Citroen DS con i fari gialli nella nebbia,
il bancone di un bar di quart’ordine su cui gli amanti clandestini stanno
piegati senza parlare; più in là qualcuno rovescia, per troppa foga nel
gesticolare, il suo bicchiere di pastis: "Attention, tu as mouillé ma
veste!" E poi cinema di provincia con le sedie in legno e il telone
rammendato, lo schiocco delle bocce di metallo – ricorda
il caricatore infilato nella pistola –, sul porfido di un vicolo di Marsiglia,
l'insegna luminosa del motel ha l'ultima lettera infranta dal tiro di una
fionda (al suo interno, una donna non più giovane si sta rimettendo i collant),
con una coppia di fanti l'uomo dal dente d’oro rilancia al tavolo di poker (un
altro si raddrizza il berretto e riflette sul da farsi…), cani neri annusano il
vento nel piazzale deserto di un distributore di GPL, incontri di pugilato
truccati male, pioggia, Francia, impermeabili color crema… Ah come è bello, ogni
tanto, abboccare all’amo di un immaginario fin troppo logoro e sfruttato, e
intonarsi al canto consumista di sirene con i bigodini in testa.
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