Ieri ho guardato per intero una puntata del Grande Fratello Vip, non solo qualche spezzone come a volte mi capita, così per suscitare quei brividini di orrore che alimentano l'autostima. Io non sarò mai come loro pensavo infatti seguendo la travagliata liaison tra Elisabetta Gregoracci e Pierpaolo Petrelli, Enock e la sua liberatoria eliminazione dalla casa ("finalmente stasera potrò cagare") o la disperata ricerca di una banana da parte di Malgioglio. Una banana matura, ci tiene a specificare.
No, io non sarò mai come quei criceti da esposizione, io non correrò dentro la ruota acefala del glamour – un glamour di risulta dove si inscena la parte senza imparare alcuna arte –, io di qui, io di là… Ma siamo proprio sicuri? Forse, basterebbe cambiare il tempo del verbo. Io non sarò perché già sono, secondo la dinamica immaginaria della disidentificazione post tutto, che in realtà mi identifica per opposizione: "codesto solo oggi possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo".
Proseguendo nel mio cocciuto masochismo
televisivo, i versi di Montale lasciavano spazio a quelli di una canzone di
Vinicio Capossela: "ovunque proteggi la grazia del mio cuore" viene
ripetuto nel refrain come una nenia infantile e un po’ ubriaca, "la
grazia del mio cuore, la grazia del mio cuore..." Quella grazia che mi
sembrava perdersi nei concorrenti ogni volta che aprivano la bocca – e cioè
ventiquattro ore al giorno, anche nel sonno –, facendo tutt'uno tra pensierini
da quinta elementare ed emozioni primarie, da buttare in faccia allo spettatore
per ribadire che anche i ricchi piangono, come titolava una telenovela di
qualche lustro fa.
Alla fine, mi è rimasta la sensazione
che questa sia una trasmissione davvero geniale, nella quale viene restituita
un'allegoria pop dell'epoca che stiamo vivendo. Un tempo in cui la continua
espressione di ogni stato d’animo transitorio, brucia, al suo nascere, la
possibilità di trasformarlo in pensiero compiuto, non concedendogli lo spazio
interiore per una lenta maturazione; come se bevessimo il mosto nell’impazienza
di attendere il vino, di attendere qualsiasi cosa.
La grazia coinciderà forse con il tempo
invernale dell’attesa, che si nutre di un movimento di segno opposto: dal fuori
al dentro, secondo l'intuizione di un altro poeta, John Keats. Scrivendo al
fratello George nel 1819, così sugellava la sua lettera: "chiamate, vi
prego, il mondo la valle del fare anima. Allora avrete compreso l'uso del mondo."
Ma quando al mondo viene sostituita
l'espressione del proprio mappamondo, che succede? L'anima, invece di farsi,
probabilmente si disfà. E la grazia che ne è l'immagine senza forma, la musica
senza suono, la poesia senza parole rimane indifesa, perduta. Non hai protetto
ovunque la grazia del tuo cuore! Lo comprendiamo continuando nella lettura di
John Keats: “dico fare anima intendendo per anima qualcosa di diverso
dall’intelligenza. Possono esistere milioni di intelligenze o scintille della
divinità, ma esse non sono anime fino a quando non acquisiscono identità, fino
a quando ognuna non è personalmente se stessa.”
Ed è quanto avviene non solo ai
concorrenti del Grande Fratello Vip, ma a tutti noi che invece di confessarci
nell'intimo di una chiesa o anche solo a un buon amico, di fronte a due birre
medie, lo facciamo in pubblico sul sagrato di un social network. Senza grazia.
Senza anima. Senza identità da donare a quella scintilla che si spegne. E però
un mucchio di like da spendere come gettoni sull’autoscontro.
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