venerdì 30 novembre 2018

Manichini, o sugli abiti culturali con cui rivestire i generi sessuali


In uno scambio di battute a seguito di un mio post pubblicato su Facebook, è emersa, soprattutto grazie all’intervento dello scrittore Vitaliano Trevisan, una questione che io trovo decisiva per questo tempo, e che riguarda le complesse relazioni tra i generi.
Nel dialogo era presente anche una donna, che argomentava da una prospettiva diversa da quella dell’autore vicentino, facendo proprie, con toni devo aggiungere molto equilibrati e non radicali, un argomento cardine di quella che è stata la riflessione femminile, sviluppata in particolare nella seconda metà del Novecento.
Il succo era grossomodo questo. Il motivo per cui molte donne, si potrebbe pensare masochisticamente, assumono comportamenti compiacenti verso il genere maschile e i suoi interessi più deteriori, arrivando addirittura a non denunciare le violenze subite (ma ci sono violenze anche da parte delle donne sugli uomini, ricordava Trevisan), deriva da una vera e propria introiezione del modello patriarcale, che per quanto patito esse continuano ad alimentare senza averne consapevolezza. Ad esempio le madri che dicono ai figli: “Non devi piangere, sei un ometto!”
Essendo entrambi estremamente abili con le parole – Trevisan e la donna intervenuta a commentare, intendo – eviterò di riassumerne lo scambio con quella paternalistica presupposizione di chi intenda essere super partes, ma riporto qui, cercando di svilupparla, soltanto la mia opinione al riguardo.
E dunque vediamo: le donne hanno introiettato inconsciamente il modello patriarcale ad esse ostile, al contrario degli uomini che lo vivono con perfida consapevolezza. Ma questo sapere strumentale, per non essere rivelato alle donne 
– in fin dei conti si tratta di un imbroglio, uno sfruttamento su larga scala – deve essere anche occulto, dunque una strategia. Tutto ciò a rigor di logica, almeno. 
Beh, a me questo sembra un assunto non solo ideologico, e cioè privo di alcuna evidenza sperimentale, ma anche fuori da ogni buon senso.Viene infatti parimenti assunto che esista un soggetto collettivo – l’interezza degli uomini, e che diamine! – il quale condivide un segreto senza che sia mai venuto a galla nei secoli, se non per via induttiva. Nessun uomo ha insomma mai confessato, magari sul letto di morte, o sotto tortura di una scatenata tribù di amazzoni, questo complotto maschile ai danni delle donne.
Un modo di ragionare già screditato da Umberto Eco parlando delle teorie complottiste in generale. I complotti infatti esistono, per carità, per il grande intellettuale scomparso, ma non si dà alcun complotto su ampia scala (e per ampia scala lui intendeva qualche centinaia di persone) che nel giro di un paio di decenni, o poco più, non mostri una crepa, un pentito, una gola profonda. Figurati quando il soggetto complottante dovesse coincidere con TUTTI gli uomini di TUTTI i tempi, dai…
Ugualmente, assumere che TUTTE le donne con eccezione di pochissime illuminate – nella fattispecie le femministe – abbiano vissuto obnubilate rispetto alla propria reale condizione, e addirittura assimilando la struttura portante dell'apparato cognitivo-militare del “nemico” (l’introiezione simbolica di cui sopra), mi sembra non rendere onore all’intelligenza femminile.
Se ci sbarazziamo dunque del concetto di macrocoscienza complottistica maschile, quanto di subcoscienza mimetica femminile, abbiamo un modello sistemico molto più attendibile. E cioè una relazione tra uomini e donne certamente interessata – interessata in senso proprio intendo, interessata da fattori economici e di potere in cui l’uomo è certamente più forte sul piano fisico, ma anche interessata sessualmente (e la facoltà di generare la vita è un formidabile capitale, in questo caso a vantaggio delle donne), interessata esteticamente, emotivamente e in ultima analisi coinvolta nelle dinamiche di uno scambio necessario, già che altrimenti avremmo quale unico mediatore lo stupro. Tutto ciò, nel tempo, ha portato a equilibri precari chiamati cultura, in un senso ovviamente non accademico e piuttosto sociale, antropologico.
Se le cose stanno così come io credo – equilibri dinamici tra generi, che progressivamente si consolidano in strutture sociali e modelli relazionali –, è verosimile che questi modelli vengano tramandati, un po’ pigramente, oltre all’attualità del contesto in cui si sono formati. E' la staffetta tra le generazioni, dove oltre alle scoperte scientifiche ci si bisbiglia all'orecchio anche qualche altra dritta su come tirare avanti.
Pensiamo alla costruzione dell’ideale femminile della donna angelicata, nato al semplice scopo di colmare il deficit emotivo ed erotico delle corti provenzali tra il nono e l’undicesimo secolo, tra cui quello di molti poeti (di sesso quasi esclusivamente maschile) che vagheggiavano le virtù di donne che assai poco conoscevano, e perciò in larga misura idealizzavano. 

Secondo 
Denis de Rougement, che ha analizzato la genesi e lo sviluppo del fenomeno nel suo fortunato saggio L’amour et l’Occident, tale modello si è riprodotto con variazioni minime fino al ventesimo secolo inoltrato, soprattutto ad opera dei canoni letterari e spettacolari. Quindi ha influito molto meno nelle classi non scolarizzate, quali ad esempio il mondo contadino e il sottoproletato urbano, assai più concrete e schiette in certe faccende dalla cintola in giù.
Il modello è un semplice facilitatore dunque, non sei obbligato a seguirlo ma diciamo che è meglio se lo fai, è più comodo e meno conflittuale, come la sagoma del manichino su cui imbastire il tessuto di una biografia. Ma alcuni manichini sono più allineati con le esigenze biologiche e segnatamente riproduttive, sessuali, mentre altri se ne distanziano maggiormente. La nevrosi psicanalitica sarà allora il metro con cui viene misurata la distanza. E quello della donna angelicata era un modello particolarmente strabico e nevrotico, al punto da aver ispirato a Lacan il suo celebre motto beffardo: “la femme n’existe pas”.
Per tale ragione, aggiornare il guardaroba dei generi, da entrambi i fronti, mi sembra doveroso. Storia, economia e innovazione tecnologica nell’ultimo secolo hanno infatti trottato con gran velocità, specie negli ultimi decenni. La cultura di genere è però rimasta un manchino abbigliato con i soliti vecchi stracci.
Si potrebbe obiettare che il re è finalmente nudo, ma questa non sarebbe affatto una buona notizia. Vivere l’identità di genere nella spoglia verità del desiderio è infatti impossibile. Il principio di civiltà, è ancora Freud a ricordarcelo, ha bisogno che si baratti un po’ di felicità per una maggiore sicurezza. E per essere più sicuri le pulsioni vanno contenute, servono abiti e modelli culturali, mediazioni civili. Tale rapporto dialettico tra desiderio e sicurezza è chiarito molto bene dalle parole di Raffaele Alberto Ventura, di cui segnalo un breve estratto dalla sua pagina web
"Si potrebbe credere che lo stupro sia l'effetto di un rapporto di forza; e invece sono i rapporti di forza a discendere dallo stupro. La sua sola possibilità ha fondato nei secoli la dominazione maschile come più efficace sistema di protezione dalla minaccia dello stupro. Il male e il rimedio procedono dallo stesso dato antropologico, fondandosi reciprocamente."
Se ne ricava la ragione per cui Doniso e le sue baccanti, anche anticamente, potevano denudarsi solamente un giorno all’anno, in cui fare festa e concedersi al godimento più sfrenato. Ma gli altri 364 giorni erano ricoperti dagli attillati abiti di Apollo. O detta con le parole di un celebre filosofo: la trasgressione è la glorificazione del limite.
Se però si vuole aggiornarne i costumi partendo dall'idea che gli uomini abbiano sempre cercato (lucidamente) di fregare le donne, a loro volta complici per averne introiettato la simbolica e ora è dunque venuto il momento della vendetta, vendetta tremenda vendetta, secondo me non si va molto lontano. Anche perché sarebbe una nuova veste tagliata dal tessuto del rancore, che, come il celebre abitino rosso di Marilyn Monroe, al minimo sbuffo di vento vola via…

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