sabato 24 novembre 2018

Dio è morto, o sulle proporzioni matematiche tra religione e filosofia

Da qualche tempo, quando mi accosto a un testo religioso, provo il senso di una curiosa proporzione matematica. Mi sembra infatti che Cristo e Buddha stiano all'ambiente culturale da cui provengono (e almeno in parte incorporano) come Socrate sta ai filosofi cosiddetti presocratici; e penso in particolare a Pitagora e Parmenide.
Da ciò ricavo che il cristianesimo non è un "più" della tradizione giudaica, portandola, come molti ancora vorrebbero, a compimento e quindi esorbitandola. Allo stesso modo il buddhismo non supera la parola iscritta nello sterminato canone induista, né Socrate è il punto più alto del pensiero del suo tempo. Semplicemente parlano di cose diverse: i primi, cronologicamente, si concentrano sulla natura, Dio, l'Essere; i secondi introducono la riflessione sull'uomo e la sua sofferta condizione, ma ora, e per la prima volta, in rapporto a una salvezza (la buona novella) di cui intravedono la possibilità.
La differenza con la filosofia sta forse tutta qui. Dopo la parentesi socratica,  che si estese a stoicismo ed epicureismo a monopolizzare la scena romana successiva, in cui la soggettività mantiene un ruolo preminente e i comportamenti morali ne sono il riflesso, la filosofia, più baldanzosa che mai, è tornata a interrogare la reticente dimensione che va oltre il sipario della "physis", con Andronico da Rodi divenuta nel frattempo metafisicaMentre in campo religioso, almeno in Occidente, la tensione allo spazio dell'ulteriore è progressivamente andata sfumando, fino a essere confinata in quel secondo piano che sono i monasteri, fisicamente espunti dai luoghi pubblici della cristianità.
Quando si è tentato di riparlarne – di Dio, delle cose che da sempre sono senza essersi mostrate mai  si è così dovuto farlo con le parole della stessa filosofia; parole di ragione e non più di visione e profezia, che hanno preso il nome di teologia. Un verbosissimo e inesausto borbottio che cercava di cucire un abito su misura al Padre, al Figlio e perfino allo Spirito Santo, ritornando immancabilmente ai sarti che con più fortuna avevano rivestito questi concetti. Aristotele e Platone, i Dolce & Gabbana della filosofia.
Tutto ciò, nel corso dei secoli, ha fatto sì che la narrazione religiosa smarrisse un lessico proprio anche se non esclusivo, possedendo la forma analogica del mito e del simbolo e dell'emozione, con cui sapeva rendere presente e quasi palpabile quel che eccede la cornice dei fatti. Si è in tal modo spezzato il cavo di una sorta di funivia, percorribile e percorsa da tutti coloro che intendevano fare esperienza anche dell’altro, del numinoso e dell'inaudito che si dischiudevano nel corso del viaggio. E che viaggi!
Rimanevano, al ritorno, delle testimonianze magari un poco esagerate, come quelle dei turisti in una vacanza esotica e avventurosa; e vai tu a sapere il confine tra ciò che hanno realmente visto e il piacere del narrare. Eppure, quei racconti incerti e poco plausibili avevano il potere di fare mondo, lo estendevano, non solo metaforicamente, oltre il limitare dei sensi, per confondersi infine con le nuvole di polvere sollevate dagli zoccoli dei cavalli. In pratica: da storie diventavano Storia, con la esse maiuscola e il sangue di chi ci ruzzolava al centro.
La Chiesa di Francesco, benemerita sul piano etico, compassionevole verso i diseredati e in ultima analisi politica – nel senso migliore e più alto del termine, sia chiaro – è la sintesi postrema di tale svolta socratica del cristianesimo: umano troppo umano, ma senza più alcuna sfumata ombra di Dio. Già che un Dio senza storie leggendarie, un Dio ricondotto alla taglia del buon senso (una extra small), è davvero e definitivamente morto. Ma per risorgere, dopo tre giorni o trecento anni, poco importa, sotto i veli gonfi dell'Islam.

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