mercoledì 14 novembre 2018

E la nave va, o sui nomi e l'amore


Un sogno. Una città forse di mare. Il mare non si vede ma nelle narici penetra a ondate discontinue l'odore della salsedine, mentre aspetto di salpare su un traghetto di cui non conosco la destinazione. Che non arriva mai.
Per ingannare l'attesa mi siedo, anzi sono già seduto, chissà da quanto tempo sono lì, al tavolo esterno di un bar di una città che forse è di mare, dalla quale sto aspettando di partire. 
La via su cui si trova il bar è stretta e lunga e piena di gente, come la veranda dove sono accostati i tavolini. Pochi centimetri li dividono, ci dividono, separando i nostri corpi sudati. Mi domando se anche gli altri clienti hanno in tasca un biglietto per il traghetto che continua a non arrivare, nell'odore di salsedine e tartine...
Ho il piede destro che mi fa male, se provo ad alzarmi zoppico e infatti resto seduto, meglio non muovermi penso guardando le piaghe che si allungano fino quasi al ginocchio. Tanto non riuscirei comunque a camminare, concludo.
Odore di salsedine, tartine e carne insaccata a macerare al sole. 
Una mia compagna di scuola delle medie, che sorpresa, c'è anche lei, non la vedevo da anni. Ma la sua reazione non sembra stupita, come se fosse il giorno prima che le scarabocchiavo la foto di Miguel Bosè incollata sul diario, mentre mi dice di conoscere un rimedio a miei problemi. "Miracoloso", aggiunge.

Mi invita quindi ad aspettarla – e dove vuoi che vada… – avviandosi alla ricerca di una farmacia dove acquistare la pozione magica che mi salverà. La vedo perdersi nell'intricato dedalo di una città che è certamente di mare. 
Odore di salsedine e tintura di iodio. 
Dalla parte opposta della viuzza c'è un altro bar, ma senza tavolini all'esterno. Arriva una motoretta a gran velocità. È condotta da un uomo, sembra giovane, un ragazzo, ma non si capisce bene perché ha il volto coperto da un foulard. Il tessuto e stampato a piccole losanghe bianche e nere.

Sfrecciandoci davanti lancia qualcosa nell'ingresso del bar di fronte. È una bomba, grida qualcuno. Una bomba!
Odore di salsedine e paura. 
E poi e subito e nel frastuono generale gente che scappa, tavolini che si ribaltano. I cocktail colorati si mescolano in terra con la schiuma soffice dei cappuccini. Io però non riesco a muovermi, per via del piede. Oddio il mio piede, la bomba, oddio! Mi porto così le mani alla testa e aspetto...
Odore di salsedine e polvere da sparo. 
Ed eccolo: il botto. Bum! La deflagrazione. Fiamme e schegge di vetro che mi raggiungono da tutte le parti, crolli, grida disperate. Poi silenzio.
Sono ancora vivo?
Pare di sì. Mi tasto, verifico la presenza di tutti gli arti, il loro funzionamento, non trovando nulla di alterato. Posso perfino camminare.

Odore di salsedine e grano maturo.
Ma fatti pochi passi vedo il mio cane disteso al suolo. Lo tocco, lo scuoto. Ne invoco l'attenzione come quando cerco di farmi riportare la pallina: Mela, Mela!
Niente da fare, è lei a essere morta. Non io, lei. C'è sempre qualcuno che prende il posto di qualcun'altro. Come Salvo d'Acquisto, penso. Co
me gli imbroglioni che fanno il gioco delle tre carte nei mercatini.
Sapore di ruggine nelle lacrime che mi scorrono sulle guance, ruggine e salgemma, prima di raggiungere la bocca. Dove c'è ancora un pezzo di tartina. 
Il mio pianto disperato sembra non arrestarsi mai, ma qui la scena cambia all'improvviso. Una specie di stacco cinematografico, un'ellissi. Il montatore è stato bravo e tutto avviene con naturalezza.

Vapori salmastri e nuvole che corrono sospinte dal vento, sempre più veloci. Un video di Philip Glass in cui il fiume dei giorni viene distallato in un bicchiere.  
Mi ritrovo così sul traghetto con la mia vecchia compagna delle medie. Simona, si chiama. Ai nostri piedi, mentre lo scafo oscilla dolcemente sulle onde, un cane che scodinzola. È un Hovawart di colore scuro e l'espressione mite e amichevole.

Odore di biscottini al burro, ma al posto dello zucchero il sale.  
Sei contento? mi chiede Simona.
Ci penso un momento.
Non è il mio cane, dico io.
Sì ma è uguale, facci caso, è davvero identico. Ha anche le focature marroni ai bordi della bocca. Guarda che carino… 
Non è il mio cane, ripeto io. Ha un nome diverso. Io non voglio un cane con un nome diverso. Voglio il mio cane!

Odore di salsedine e vecchi vocabolari. 
Poi mi sveglio all'improvviso e inizio a raccontare il sogno a un piccolo dittafono da tasca. Quando ho finito, mi viene in mente una cosa che ripeteva Lacan: "dell'altro, si ama sempre il nome". 
Dalle tapparelle abbassate filtrano intanto le prime luci dell'alba. Ma nella camera, ancora buia, è scomparso l'odore del mare. Provo a riaddormentarmi.

Nessun commento:

Posta un commento