sabato 3 novembre 2018

Le parole e le rose, o sulla frustrazione ai tempi di Facebook

Trovo che Facebook sia un formidabile indicatore per misurare il grado di appagamento sociale e professionale. Quanto più una persona è soddisfatta della propria vita, quanto più rilascerà dei post in linea con gli intenti originari del social network: condividere momenti privati e, possibilmente, belli della più minuta quotidianità. Come le copertine dei dischi che si sono amati in gioventù, le rose che sbocciano sul balcone della casa di villeggiatura, il gattino addormentato sulle ginocchia o i figli che crescono, si sposano, fanno a loro volta dei figli e i padri diventano nonni; così ci sarà spazio anche per le fotografie dei nipotini, il primo bagnetto o un triciclo tutto rosso, su cui scorrazzano trionfali.
Banalità piccolo borghesi, dirà qualcuno. Una lettura molto parziale e snob. Vita, piuttosto, vita al suo livello elementare e non ancora setacciata dal pensiero, incrinata dal dubbio o graffiata da un'attenzione vigile al dettaglio che si fa bandiera, ma bada bene pirata. Ed è quanto fanno invece le persone che avvertono la sabbia sfuggire dalle mani, pensando di costruire qui il loro castello. Ed è così che approfittano di una socialità surrogata per esibire il loro talento, ovviamente misconosciuto, non sempre per un reale demerito va detto. La strategia più praticata è quella di interrogare i casi politici o personali con ragionamenti da cui risalti la propria arguzia, sensibilità, competenza verbale, prontamente riversate sul web nella speranza di ottenere quel riconoscimento che ancora gli manca. È assente là fuori, intendo. Dove i mulini non sono bianchi o i pollicioni blu. 
Ne è un chiaro esempio questo testo, presentato in prima battuta su Facebook e che contiene un altissimo grado di frustrazione; e infatti più che un post è microsaggistica sociologica, antropologia massmediale, giornalismo culturale o come diavolo volete chiamarlo; avendo ostruito i canali ufficiali, trova però qui l'unico sbocco. Le idee e toni possono a volte essere anche giusti, per quanto l'effetto somigli a quello di certi omini grigi e dimessi, l'impermeabile crema e la postura del tenente Colombo quando si gira per un'ultima domanda, che sarà fatale all’assassino. E sempre inizia con: "Dimenticavo..."
Ma che succede, appena sale sullo Speakers' Corner di Hyde Park, una schiarita alla voce, al nostro omino grigio subito si accendono gli occhi, i gesti si fanno vorticanti e teatrali come Hitler quando arringava le folle dalla terrazza del Reichstag! Parole, pensieri, analisi, considerazioni a ruota libera. Sembra sappia tutto lui. Ma siamo sicuri che la gente radunata intorno sia lì per sentirlo, e non in attesa della fidanzata? 
Se dunque provo simpatia per chi ha l'impudenza di mostrare con orgoglio i propri gioielli – "haec ornamenta mea", il sotto testo implicito a molte delle immagini condivise sui social – mi suscita una tenerezza anche maggiore chi, come me, è convinto che il mondo possa diventare diverso e migliore attraverso il linguaggio, nella fattispecie il proprio. Basta seguirci con attenzione, leggerci, amarci. E se non è sufficiente la voce, abbiamo ora quello straordinario megafono che si chiama internet, da cui strillare il nostro “vota Antonio, vota Antonio, vota Antonio la Trippa!”
Ingenuità? Sì e no. 
Per quanto sia presente una cospicua schiera di velleitari, ad analizzarli con il rispetto che sempre merita l'impegno profuso, i testi dei commentatori seriali risultano non di rado ricchi di spunti interessanti, pensati con cura prima di venire alla luce, per dileguare poi nell'arco di poche ore con una manciata di like a provvisorio balsamo per la nostra frustrazione. Quella di abitare un mondo che ci confonde sempre con qualcun'altro, mentre una rosa è una rosa è una rosa. E se prima o poi anche lei sfiorisce, è per rinascere, più bella e rigogliosa, a ogni nuova primavera. Quindi essere fotografata e finire su Facebook.

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