giovedì 4 ottobre 2018

Statue di fare, o sull'impegno come fuga

A volte mi viene il dubbio, meglio il sospetto, meglio la convinzione che le persone molto impegnate – quelle che per parlargli due minuti devi prenotare la telefonata il giorno prima, e rispondono solo tramite WhatsApp – sotto il cumulo della loro agenda stracarica nascondano un enorme cratere. Ma invece di lava incandescente, all’interno c’è una Pompei fissata nell’atto di compiere un gesto mai concluso; il cane che voleva scappare ma è legato alla catena, le mani a protezione della testa, l’urlo di Munch. Una specie di tableau vivant, a cui restano tanto più inchiodate quanto più si dimenano nel loro frenetico ingaggio con il tempo dell'azione, come chi si dibatte per uscire dalle sabbie mobili. Delle vere e proprie statue di fare.
La domanda a questo punto diviene storica, fino a interrogare l’archeologia dell’anima. Chissà da dove proviene l’eruzione originaria, a cui, come Plinio il Vecchio, li ha avvicinati una divorante curiosità, tanto da rimanerne irrimediabilmente ustionati. Sarà allora per non ripetere l’esperienza dolorosa che si iscrivono a corsi di lingue mesoamericane, spada giapponese, danze maori, seconde lauree e specializzazioni professionali, con l'immancabile cineforum d’autore. Ma qualsiasi cosa va bene, piuttosto di incrociare lo sguardo del drago una seconda volta. Peccato che la ferita non riesca a farsi cicatrice, segno placido sul corpo, e ogni giorno debba essere suturata.


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