domenica 7 ottobre 2018

La pancia piena e la testa vuota, o su come la nuova “cultura” gastronomica nasconda una vecchia ideologia


Ne ho già scritto più volte in passato. Ma era per accenni ironici, bozzetti affettuosi e in fondo complici. Ora però vorrei provare a elaborare un pensiero serio e articolato sul fenomeno della gastronomia, che con implacabile incedere sta guadagnando in diffusione e consenso, al punto di ottenere la promozione a cultura del cibo. Nel nostro Paese molto si deve alla precoce iniziativa di Carlo Petrini, dobbiamo risalire al 1986 quando inaugurò, a Bra, la prima sede dell'Arci Gola, in seguito confluita nel movimento internazionale dello Slow Food.
Da un punto di vista antropologico è fuori dubbio che il cibo, e in particolare quello consumato assieme, rappresenti un passaggio importantissimo nel processo di civilizzazione, lasciando tracce significative e durature – c’è chi addirittura pensa che gli ominidi da cui discendiamo si riunirono la prima volta solo per mangiare, e sarebbe dunque la commensalità il primo gradino che portò la scala umana fino alla luna. Con il termine cultura, quando declinato in un senso generico e sociale, non accademico, si intende proprio questo: le sedimentazioni che il tempo nel suo trascorrere lascia dentro la vita degli uomini, trasformandosi in segno, discorso pubblico e condiviso.
A ciò dobbiamo aggiungere il fatto di vivere in un paese che ha nel turismo, e in particolare in quello eno-gastronomico, una delle sue risorse principali, ed è perciò importante valorizzare tale aspetto. Ma a me pare che negli ultimi anni si sia francamente esagerato, equiparando il Brunello di Montalcino alla lunga e sofferta Recherce proustiana, o Mozart alle alici del mar Cantabrico; quelle che ti porta un collega a cui a sua volta le ha cedute, dopo molte insistenze, un suo amico che conosce un pescatore asturiano di centodue anni, tutte le mattine sfida le onde atlantiche per immolare un pescetto smilzo sulla tua tartina.
E’ allora il caso di ragionare intorno alla diffusa condiscendenza verso i piaceri della buona tavola, pardon della cultura del cibo, che fa velo a una differenza fondamentale con la cultura cosiddetta alta; ora spesso biasimata quale pesante, noiosa, se non addirittura messa in burla con lo stigma sarcastico di “seghe mentali”. Con cultura non ci si riferisce infatti ai soli e molteplici intrecci tra storia e bellezza – quella che solletica il palato è certamente un'offerta di bellezza, a cui è giusto accostarci con curiosità e rispetto – ma più in generale all’interrogazione sul significato di tale esperienza. Quando la cultura non si esaurisce in repertorio delle pratiche sociali ed è invece espressione intenzionale, ossia arte, o interpretazione critica, abbiamo insomma un doppio movimento: verso l’esterno, ma anche dentro di sé. Le forme in cui si produce non sono però contraddittorie ma armoniche e complementari, come la mano di Giotto quando disegnò il suo cerchio perfetto.
Ma forse è più semplice se chiamiamo nuovamente in causa Mozart e Proust, a cui abbiamo sveltamente accennato. Tra le parole del grande scrittore francese e le note del genio musicale di Salisurgo, a ben guardare si può leggere una riflessione sottilissima sui modi specifici del proprio gesto – perché uso un certo accordo, quale effetto avrà quell’aggettivo? – e non solamente la ricerca di condiscendere al piacere immediato e sensoriale del pubblico. La differenza tra grande arte e intrattenimento sta tutta qui: l’arte è sempre un discorso su un oggetto esterno ma anche su se stessa e la tradizione da cui proviene (un meta discorso, se si preferisce), ovvero sulle proprie condizioni di esistenza e sugli effetti che andrà a generare in chi ne partecipa, senza con ciò rinunciare al godimento. Nell’intrattenimento manca invece l’interrogazione conoscitiva, a tutto vantaggio del solo piacere.
Se prendiamo alla lettera lo slogan virale di cultura applicato alla gastronomia, dovremmo a questo punto chiederci quale siano la poetica civile e la riflessione strutturale di un manicaretto di Davide Oldani o Carlo Cracco... Intendiamoci, niente di male se limitano il loro sapiente spignattare allo scopo di farci gustare dei buoni cibi, anzi ottimi, e onoriamone pure l'estro. Ma questo è intrattenimento alimentare, non cultura. A maggior ragione se pensiamo che a includere ogni attività dentro la pigra formula di cultura non si capisce cosa ne resti escluso. O in altre parole, se tutto è cultura la cultura è niente. 
Volendo essere maliziosi, possiamo individuare l'elemento fuorviante nella volontà di distogliere i più da questioni politiche decisive, per ammansirli con piaceri che gli diano l’illusione di essere più raffinati ed evoluti, esclusivi e chic. Concetto per altro assai discutibile dal punto di vista linguistico, già che l’esclusività, come già visto a proposito della cultura, si giustifica solo in un regime di scarsità dell’offerta. Ma quando tutti sono esclusivi, degustano vini esclusivi, pietanze esclusive, intervallate da discorsi esclusivamente banali, il concetto si svuota di senso per inflazione. Siamo così portati a concludere che si tratti ancora e sempre di panem et circenses, con cui i latini compiacevano la plebe per continuare indisturbati a fare i loro traffici.
Aggiungo a questo punto un ricordo personale. Alla fine degli anni ottanta mi capitò di frequentare i circoli dopolavoristici torinesi, dove gli operai della Fiat venivano a farsi un bianchino o a giocare a bocce, tirando giù due madonne a ogni liscio. Conversando con alcuni di loro, mi spiegarono che fino a qualche anno prima il partito, che era allora il Pci di Berlinguer e Ingrao, organizzava dei veri e propri seminari culturali tenuti da storici, filosofi, sociologi e altri intellettuali, a cui gli operai accorrevano numerosi al termine delle otto ore in catena di montaggio. Aprivano quindi le pagine del Capitale di Marx con la stessa naturalezza con cui ora si accende la televisione per vedere La prova del cuoco, e pace se all'inizio non capivano un tubo. Cultura è infatti, almeno da principio, anche sforzo, non solo ebbrezza e consolazione.
Dobbiamo concludere che lo sforzo conoscitivo gratificasse gli operai più di un piatto fumante di bagna càuda? Mi sembra sinceramente un azzardo, ma avevano probabilmente inteso che solo la cultura, oltre a portare bellezza nelle loro vite, poteva bilanciare i rapporti asimmetrici con il padrone della ferriera. Sapere insomma, conoscere per non farsi fregare. Fatto salvo che non tutte le conoscenze si equivalgono nell'arricchire la consapevolezza sulle condizioni in cui ci troviamo, il resto è sterile nozionismo. Ma se alcuni saperi funzionano meglio di altri, questa elementare considerazione può rappresentare una prima via di uscita alle oscillazioni del pensiero postmoderno – radicalizzando un po', è stata proprio la filosofia postmoderna, con la sua disposizione relativistica e orizzontale, a portarci ad assimilare la prelibatezza di un merluzzo alla vicentina a l'Ultima cena di Leonardo. L'Eataly di Farinetti, vanto nazionale della sinistra epicurea, o il già citato Slow Food, sono dunque degli epifenomeni di un pensiero che parte da molto lontano, per poi rapprendersi in ideologia. Ossia un sistema che ratifica e quindi stabilizza i rapporti di potere. 
Per tale ragione agli operai di Mirafiori, o perlomeno a quel che ne rimane dopo le rasoiate di Marchionne, non vengono più offerte serate di studio puntiglioso, ma una bella degustazione di Fontina e Fromazdo della Val d'Aosta, con Barolo ad annaffiarla. Tutto ciò li farà certamente sentire meglio di quando il carburante alcolico era solamente Barbera di seconda scelta, ma mi chiedo se sia la stessa cosa bere vini della cantina di Borgogno che studiare la dialettica servo padrone di Hegel, o la struttura matematica delle fughe di Bach...
No, non è la stessa cosa. Ma la pancia piena fa pendant con la testa vuota. E questo, chi sta al vertice delle cucine del potere, lo sa benissimo, e anche come non diffondere la semplice verità che sta dietro alla parata dei mestoli, con cui confondere i sapori e le idee. Basta creare l'illusione che dove bollono le pentole la porta sia sempre spalancata, e lo stuolo dei lavapiatti avrà così l'impressione di stare anch'esso dalla parte dei vincenti, degli chef di successo con la mani grondanti panna montata, di tanto in tanto ricevendo qualche prelibato avanzo sotto il tavolo. Un trucco che sta funzionando alla grande, specie se condito con qualche stelletta Michelin. E le stelle, si sa, conciliano il sonno. Da cui spiccare un salto nel sogno...



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